Liturgia nel Post-Pandemia Quali Prospettive per la celebrazione Liturgica nel “Post-Vaccino”?

Introduzione

Molti sono stati i contributi, pubblicati in questi mesi, circa le conseguenze che, direi inevitabilmente, la pandemia ha provocato anche nel celebrare cristiano e le iniziative poste in atto affinché il culto della Chiesa potesse essere comunque garantito. Diversi anche i congressi, seminari, webinair, che hanno approfondito o approfondiranno questo argomento. Non volendo indugiare ancora su questa tematica, sebbene non potrò fare a meno di tenerla in considerazione, tenterò di riflettere piuttosto su quali siano le prospettive e le buone pratiche che l’emergenza sanitaria ha suscitato in relazione alla liturgia, all’indomani di questa esperienza che non può lascarci indifferenti e che certamente ha almeno provocato delle riflessioni e la necessità di adattamenti nei riti. Parlerò di riscoperte, di attenzioni che siamo chiamati a prendere in considerazione nel futuro in riferimento ad elementi, valori,

Si veda il XII Congresso Interazionale di Liturgia del Pontificio Istituto Liturgico Sant’Anselmo di Roma, dal titolo Liturgia “Virtuale”?, che si terrà dal 20 al 22 ottobre 2021 (cf. https://ateneo.anselmianum.com/mod/book/view-.php?id= 1036&chapterid= 13, https://archive.is/-o762d).

Si pensi al Seminario di studio promosso dall’Associ-azione Professori e Cultori di Liturgia, celebratosi on-line il 9 gennaio 2021, dal titolo La Liturgia, alla prova del Covid. Forme di partecipazione in presenza e a distanza (cf. https://www.apl-italia.org/la-liturgia- alla-prova-del-covid/).

Si veda il webinair organizzato dal Berkley Center far Religion, Peace & World Affairs della Georgetown University, dal titolo Being a Eucharistic People in Digital Space: Liturgy in the Time of COVID, che si è svolto il 31 marzo 2021, al quale sono intervenuti alcuni esperti -rappresentanti delle diverse confessioni cristiane (cf. https://berkleycenter.

georgetown.edu/events/being-a-eucharistic-people-in-digital-space-liturgy-in-the-time-of-covid; https://archive.is/po4Dt; https://www.youtube.com/-watch/v= W6bEwkUlUO)

aspetti della liturgia che forse erano già fragili prima della pandemia e che questa non
ha fatto altro che accentuare ed evidenziare maggiormente, sottolineando soprattutto le potenzialità che possono scaturire da questa difficile esperienza.

1. Saper gestire il rinnovato desiderio/nostalgia della liturgia

È stato interessante, e credo positivo, che la liturgia – forse soprattutto a motivo della mancanza di riti che accompagnassero la malattia e la morte in questo tempo – abbia interessato non solo gli “addetti ai lavori” (liturgisti e teologi), ma anche coloro che non si interessano direttamente di liturgia o addirittura non credenti. Ha riguardato, in qualche modo, il dibattito pubblico. Il faro che si è riacceso sulla importanza della liturgia da parte di molti, credenti e non, fosse anche solo come fatto antropologico e che forse non vedevamo dal tempo del post-concilio, ha certamente interrogato sulla importanza e imprescindibilità dei riti nella vita dell’uomo, da non sottovalutare e da non lasciarsi sfuggire. Tutti, peraltro, abbiamo assistito ad una sorta di “sete di riti”, “sete di liturgia”, soprattutto nel primo periodo dell’emergenza sanitaria quando non era possibile recarsi in chiesa per le celebrazioni. Gruppi di cattolici che reclamavano la propria libertà nel recarsi a celebrare il culto; la tristezza per la sorte di alcuni cristiani, malati di COVID e in fin di vita, ai quali quel nemico invisibile nega sia l’accompagnamento della propria famiglia che della comunità cristiana, nel passaggio da questa vita al Padre, sia la celebrazione delle esequie. Un grido si sollevava da parte

di molti cristiani, del tipo: “Restituiteci i sacramenti!” o “Ridateci quel corpo!”
Credo che questa pandemia abbia in qualche modo risvegliato almeno la coscienza di essere cristiani che esprimono la loro fede attraverso dei riti; coscienza spesso legata, ahimè, all’esile filo del fattore antropologico o alla cosiddetta “tradizione di famiglia”. Saremmo, infatti, semplicemente ingenui se pensassimo che la pandemia abbia risvegliato, in genere, la fede e la sete di liturgia da parte di molti fedeli come esigenza del cuore e dello spirito di una comunità che sente il desiderio profondo dell’incontro con il Risorto nella celebrazione del mistero pasquale. Come saremmo stolti se dovessimo sprecare anche questa piccola fiammella che occorrerebbe alimentare per poter far ri-avvicinare molti fedeli alla liturgia della comunità!

Personalmente non ho un ricettario da proporre, ma mi limito a leggere il fenomeno e indicare delle piste che dovremmo fiutare e imboccare affinché questa pandemia ci ritorni utile e non sputi solamente il veleno amaro dell’annullamento e asfissia. Credo sia necessario far fruttare e rendere attiva questa sia pur timida e non ben qualificata sete di riti che comunque anima il cuore dell’uomo; occorre guidarla e sostenerla, conducendola verso la giusta traiettoria per giungere alla meta. Non

Per fare un esempio, parlando della situazione italiana che è quella che certamente conosco meglio, «secondo i dati elaborati dall’Eurispes nel 28° Rapporto Italia pubblicato nel 2016, “il 71,1% degli italiani si dichiara cattolico credente’: tuttavia, la percentuale dei praticanti risulta essere quasi dimezzata rispetto a quella dei non praticanti (25,4% vs 45,7%)”. Soltanto un paio d’anni prima, i credenti praticanti raggiungevano il 33,1% all’interno di quanti si dichiaravano cattolici credenti (75,2%). Stando ai dati relativamente recenti, sembra che il popolo di Dio non sia più solito riunirsi come un tempo, anche in una porzione geografica di cristianità tra le più antiche ed influenti nella storia del cristianesimo. Di questo status quo, in realtà, ne risente anche la stessa nozione di popolo di Dio, e quindi di Chiesa», L. BALZARIN, Dinamiche comunitarie e new media, “Rivista Liturgica” 107 (2020), 63.

dimentichiamo che molti dei riti cristiani sono anche “riti di passaggio”, nel senso che segnano i momenti più significativi della nostra esistenza: nascita/battesimo; costituirsi di una nuova famiglia/matrimonio; morte/rito delle esequie, ecc. Dal punto di vista antropologico, un rito è una trasposizione simbolica delle esperienze umane fondamentali; attraverso di esso l’uomo tende a dare una forma alle sue esperienze più importanti: l’inizio e la fine della sua vita, le festività e i lutti e i momenti in cui cerca di andare “oltre” sé stesso. Potremmo definire ogni individuo, sulla scia di E. Cassirer che, secondo un’impostazione filosofica lo chiama animai symbolicum, “un creatore di rituali”; è quasi una seconda natura per lui fissare dei riti, codificare in una specie di compendio, fatto di parole e di gesti, quelle che sono le esperienze fondamentali della sua vita, per poterle mantenere nell’area della sua coscienza, considerandole fonte di energia e una direzione da seguire nella propria esistenza. Questo bisogno (di sicurezze) si conferma in ogni periodo della sua vita, sotto forma di una fame di ritualizzazione e di riti sempre rinnovati, sempre più formalizzati e sempre più largamente condivisi, che danno nuovamente il riconoscimento sperato. Queste ritualizzazioni comprendono lo scambio dei saluti ordinari, che rinforza il legame emotivo, fino alla fusione dell’individuo con il suo oggetto nell’amore.

Cf. E. CASSIRER, Saggio sull’uomo. Una introduzione alla filosofia della cultura umana, Armando Editore, Roma 1996, 81.83.

Cosa fare, dunque, nel futuro della celebrazione liturgica?

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1.1 Prima pista. Ri-iniziazione ai segni / simboli/ gestì /atteggiamenti della liturgia
Abbiamo più volte detto, lungo questi mesi che, dopo l’esperienza della pandemia, niente sarà più come prima. Abbiamo subito una sorta di “appiattimento”, anche del nostro modo di celebrare, rischiando di rinunciare ad alcune conquiste del movimento liturgico prima e capisaldi della riforma conciliare dopo, come la actuosa participatio, l’assemblea come soggetto celebrante, i fedeli quali circumstantes attorno all’altare e altri elementi che vedremo tra poco. È stata fatta “tabula rasa”. Ma forse questo potrebbe essere non solo una criticità ma, in un certo senso, un punto di forza: lì dove è stata fatta “tabula rasa”, si può ricostruire cercando di evitare alcune storture o incrostazioni che si sono accumulate nel tempo e sono legate a visioni distorte della riforma. E forse è una esigenza che già da tempo percepivamo, al netto della pandemia, soprattutto in questo contesto secolare che stiamo vivendo. In tempi non sospetti, ed esattamente il 24 agosto del 2017, Papa Francesco nel Discorso ai partecipanti alla 68° Settimana Liturgica Nazionale del CAL della Chiesa italiana, esordiva dicendo: «E oggi c’è ancora da lavorare in questa direzione, in particolare riscoprendo i motivi delle decisioni compiute con la riforma liturgica,

Cf. P.A. MURONI, The Mystery of Christ in Time and Space. The Christian Celebration (Manuali Teologia-Strumenti di Studio e Ricerca 60), Urbaniana University Press, Città del Vaticano, 60; S. MAGGIANI, Rito/Riti, in Liturgia (Dizionari San Paolo), edd. D. SARTORE — A.M. TRIACCA — C. ClBIEN, San Paolo, Cinisello Balsamo, MI 2001, 1668-1669.

superando letture infondate e superficiali, ricezioni parziali e prassi che la sfigurano. Non si tratta di ripensare la riforma rivedendone le scelte, quanto di conoscerne meglio le ragioni sottese, anche tramite la documentazione storica, come di interiorizzarne i principi ispiratori e di osservare la disciplina che la regola.» Il post-pandemia potrebbe costituire, perciò, un’opportunità da accogliere come kairós per ritornare a ribadire e riproporre, attraverso una rinnovata formazione del clero e del popolo, i principi e i valori insindacabili della riforma, dal momento che il papa stesso terrà a sottolineare che «dopo questo magistero, dopo questo lungo cammino possiamo affermare con sicurezza e con autorità magisteriale che la riforma liturgica è irreversibile». La liturgia, nel contesto secolare e pandemico, non solo è chiamata a custodire con sapienza la grande tradizione simbolico-rituale della Chiesa, ma è invitata anche a ritornare alla sua natura più genuina ritrovando una giusta immagine di Dio che mette in crisi qualsiasi forma o di tradizionalismo cieco e sordo o di progressismo che non tiene conto delle esigenze dell’uomo di oggi. Forse possiamo ricostruire sulle fondamenta che le macerie della pandemia hanno sotterrato ma non sradicato.

In questo tempo abbiamo vissuto un certo cortocircuito, infatti, tra significante e significato, tra segno, gesto e il suo profondo valore mistagogico. La celebrazione è trasposizione rituale, in segni, gesti e parole, dell’amore grande di Dio per l’umanità, della sua santificazione nei confronti dell’uomo e della glorificazione resa da questo al suo

FRANCESCO, Discorso del Santo Padre Francesco ai partecipanti alla 68ma Settimana Liturgica Nazionale (24 agosto 2017), http://www.vatican.va/content/francesco/it/-speeches/2017/august/documents/papa-francesco_20170824_-settimana-liturgica- nazionale.html ; https://archive.is/n4KVO .

Cf. RA. MURONI, La liturgia celebra e vive l’umanità di Cristo, in La liturgia risorsa di umanità. “Per noi uomini e per la nostra salvezza”. 69a Settimana Liturgica Nazionale. Matera, 27-30 agosto 2018 (Bibliotheca “Ephemerides Liturgicae”. Sectio pastoralis 39. CLV-Edizioni Liturgiche), Roma 2019, 57-87.

Dio. Eppure, i gesti che sino all’avvento del COVID-19 dicevano amore, riconciliazione, prossimità (dono della pace; stretta di mano; abbraccio tra vescovo e ordinando nel Rito di ordinazione, ecc.), sono stati rovesciati e sono diventati i gesti più pericolosi del momento. “Positivo” è stata la parola più “negativa” del 2020; “assemblea”, termine che indica il popolo di Dio riunito per celebrare il culto (elemento imprescindibile del celebrare cristiano), è diventato sinonimo di “assembramento”, e dunque da evitare o comunque regolare con attenzione. In questi mesi abbiamo capito che il non stringere la mano, non abbracciarsi, non donarsi la pace, “prendere le distanze” l’uno dall’altro erano il segno dell’amore, della carità e dell’attenzione nei confronti dei fratelli. Ma in realtà non è questa la grammatica della liturgia… Occorre, allora, re-imparare l’alfabeto della gestualità liturgica il cui profondo senso e valore poggia non solo sul rito, ma sull’antropologia che vede l’uomo come essere in relazione, che ha necessità dell’altro, della sua vicinanza, del suo contatto. E anche il rito ha bisogno di relazione, vicinanza, contatto, per dire un unico popolo che loda e rende culto al suo Dio. Necessità di riscoprire anche una rinnovata relazione con i luoghi della liturgia, uscendo dall’atrofizzazione dello spazio liturgico confinato, per troppi mesi nelle nostre case dove la cucina, la sala, le stanze da letto sono diventate “spazio liturgico” dinanzi a un monitor.

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1.2 Seconda pista. Valorizzazione dei “riti di passaggio”
Abbiamo parlato di “riti di passaggio,” ossia di quelle celebrazioni che segnano e accompagnano la nostra storia e i passaggi fondamentali della nostra esistenza. Certamente una possibile pista percorribile, all’indomani della pandemia che ci ha tolto la gioia della vicinanza, dell’accompagnamento, della visita alle famiglie di parenti, amici e parrocchiani, sarà quella di valorizzare maggiormente questi “riti di passaggio”, quasi iniziatici, graduali, che diventano anche l’occasione in cui i nostri fedeli si riaffacciano nelle nostre comunità o ci riaffacciamo noi alla famiglia, per conoscere, accompagnare, gioire con loro, consolare e re-innescare così la dinamica dell’incontro e della relazione. Sebbene non sempre siano l’espressione di una nostalgia della Chiesa e della sua celebrazione, potrebbero essere occasione per suscitarle. Cosa intendiamo per “riti di passaggio?” Ci spieghiamo meglio. All’indomani della pandemia credo che far vivere l’umanità della liturgia sia il compito che ci attende. I sacramenti della Chiesa costituiscono un cammino di umanizzazione evangelica. Siamo chiamati a vivere e celebrare in pienezza l’umanità di Cristo nel rito; dunque, una “Chiesa in uscita” dovrebbe valorizzare le celebrazioni che partono dalla vita come quelle che vengono definite “celebrazioni occasionali”. Quelle che nascono da eventi personali (nascita/battesimo; crescita e maturazione

Espressione coniata dall’etnologo e folclorista francese Arnold van Gennep il quale vuole indicare quei riti che segnano un passaggio da uno stato ad un altro, in particolare nelle quattro “stagioni” della vita: nascita, adolescenza, matrimonio, morte, cf. A. VAN Gen- NEP, I riti di passaggio. Passaggio della soglia. Ospitalità, nascita, pubertà, fidanzamento, matrimonio, morte, stagioni, Bollati Boringhieri, Torino 1981; L.-M. CHAUVET, Domanda di riti, itinerari di senso. Accogliere e celebrare i riti di passaggio, in Abitare, celebrare, trasformare. Processi partecipativi tra liturgia e architettura. Atti del XV Convegno liturgico internazionale, Bose 1-3 giugno 2017, ed. G. BOSELLI, Qiqajon, Magnano, BI 2018, 169.

nella fede/cresima ed eucaristia; malattia/unzione degli infermi; morte/rito delle esequie) e che coinvolgono la mia esistenza e quella della comunità e che in parte ci sono stati sottratti. D’altra parte, bisogna riconoscere che un tempo queste erano celebrazioni familiari alle quali il sacerdote veniva invitato per benedire gli sposi o pregare dinanzi al corpo del defunto (pensate a chi è morto di COVID: solo in un letto di ospedale, senza neanche la possibilità di avere un rito cristiano). Si pensi anche alla celebrazione dell’unzione degli infermi che, se preparata bene e se i celebranti hanno avuto l’occasione di “abbigliarsi il cuore”, come diceva la volpe al Piccolo principe, può tornare ad essere anche un momento di speranza, gioia e festa dei cuori. Proprio come faceva Cristo che non si sottraeva allo stare in ambienti dove si respirava l’odore acre della malattia e del lutto! La speranza, infatti, si fa più tangibile, vissuta com’è da tutti i partecipanti; la paura della morte diminuisce, condivisa dai presenti; può aumentare invece il desiderio di Dio, riempiendo di gioia il cuore degli astanti. Anche i sacramentali, come le benedizioni (richieste spesso dai fedeli per diverse occasioni: benedizioni di famiglie, locali commerciali, benedizione di oggetti di pietà, mezzi di locomozione ecc.) possono essere celebrazioni “soglia”, ossia essi permettono di “celebrare” e allo stesso momento “entrare” nell’umanità dell’uomo e curarla, consolarla, ricondurla all’unico ovile. All’indomani della pandemia il popolo di Dio avrà necessità di questa prossimità della Chiesa: è infatti soprattutto con i riti, con la liturgia che sappiano valorizzare e umanizzare bene i segni e i gesti, uscendo da un mero estetismo o rubricismo. Celebrazioni che richiamino l’umanità di Cristo e la sua empatia e tenerezza nei confronti dell’uomo e che dovremmo

Cf. A. De Saint Exupéry, Il piccolo prìncipe, Bompiani, Milano 1993, 94 Cf. P. DE CLERCK, L’intelligenza della liturgia, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1999, 21.

riscoprire dopo questo tragico periodo; riti che consolino, incoraggino, accompagnino.
Una liturgia nella quale tutto l’umano è compreso e nella quale tutto l’umano esprime sé stesso ed esprime la Chiesa.

2. “Tutti sulla stessa barca!”: riscoperta della dimensione di “popolo di Dio”
e dell’assemblea come corpo

Più volte, nello sviluppo della pandemia, abbiamo sentito degli slogan del tipo: “Siamo tutti sulla stessa barca!”, quasi una sorta di richiamo a fughe individualiste o egoismi impropri: una pandemia “universale” ha corso il rischio di ingenerare vie di fuga “individuali”, anche nella liturgia. Questo occorre ribadirlo una volta che saremo usciti definitivamente da questa pandemia che, ahinoi, ci ha abituato ad assistere a un certo individualismo anche liturgico; liturgie quasi “private”, nelle quali l’attore principale risultava il sacerdote, “appiattito” nello schermo della TV o dei PC, che presiedeva la celebrazione con un eventuale pubblico riunito on-line, “a distanza”: esattamente il contrario della prossimità e della presenza attiva richiesta dalla liturgia e ricordata in precedenza. Al netto della situazione di emergenza e persuasi che forse non si sarebbe potuto fare altrimenti, vista la pandemia che ha colti tutti di sorpresa, occorre ribadire, quasi richiamando come metafora la tanto agognata “immunità di gregge”: non ci si salva da soli!

Occorrerà, al tramonto di questa epidemia, “vaccinare” i fedeli al senso vero di assemblea liturgica legata alla categoria di “popolo di Dio” ribadita fortemente dal concilio e ripresa dalla riforma liturgica del Vaticano II. Ricordava Papa Francesco nel discorso al Centro di Azione Liturgica nel 2017: «La liturgia è vita per l’intero popolo della Chiesa. Per sua natura la liturgia è infatti ‘popolare’ e non clericale, essendo — come insegna l’etimologia — un’azione per il popolo, ma anche del popolo. Come

ricordano tante preghiere liturgiche, è l’azione che Dio stesso compie in favore del suo popolo, ma anche l’azione del popolo che ascolta Dio che parla e reagisce lodandolo, invocandolo, accogliendo l’inesauribile sorgente di vita e di misericordia che fluisce dai santi segni. […] “L’Eucaristia non è un sacramento ‘per me’, è il sacramento di molti che formano un solo corpo, il santo popolo fedele di Dio”. Non dobbiamo dimenticare, dunque, che è anzitutto la liturgia ad esprimere la pietas di tutto il popolo di Dio, prolungata poi da pii esercizi e devozioni che conosciamo con il nome di pietà popolare, da valorizzare e incoraggiare in armonia con la liturgia».

Il “noi” liturgico ci ricorda sempre questa dimensione plurale della liturgia, che non è sindacabile (soprattutto in tempi di “non pandemia”), nonostante si assista (anche in tempi di normalità) a presbiteri che celebrano “in solitaria” la “propria” messa; ci ricorda che siamo “popolo di Dio”, come tanti elementi della liturgia.

Ciò che è accaduto durante la pandemia, ossia le Chiese chiuse e i presbiteri che celebravano da soli o chiusi dentro le parrocchie o le proprie case, se da un lato è stato visto come una soluzione forzata, dall’altro lato è stato considerato come un ritorno ad una liturgia clericale e privata, sintomo anche di una sorta di resistenza latente ad un risolutivo cambio di mentalità che stenta ancora a imporsi con decisione; una idea di liturgia clericale e privata radicata in secoli di riproposizione del rapporto asimmetrico tra Ecclesia docens e discens, tra ministri ordinati e fedeli laici, che perdura tuttora in alcuni ambienti. Occorre approfittare di questo tempo, nel quale abbiamo rischiato una sorta di “clericalizzazione della liturgia” (si pensi alle trasmissioni delle messe in streaming nelle

FRANCESCO, Discorso del Santo Padre Francesco ai partecipanti alla 68ma Settimana Liturgica Nazionale (02-02-2021).

Cf. D. VITALI, Il sacerdozio comune, “Rivista Liturgica” CII (2020), 1, 101.

quali veniva utilizzata spesso una sola telecamera e puntata sull’azione del presbitero: questo ci dice in qualche modo una certa assolutizzazione e un certo interesse all’azione del sacerdote piuttosto che all’azione di tutta l’assemblea: “Dimmi quante telecamere usi, e ti dirò che liturgia pensi o come pensi la liturgia!”), per insistere e riscoprire la teologia del sacerdozio comune che vede tutto il popolo di Dio, clero e fedeli (dunque battezzati) implicati nell’unica offerta e nell’unica lode a Dio, per mezzo del Figlio nello Spirito Santo, sebbene con differenti ministerialità e diversa partecipazione al sacerdozio di Cristo. Un rapporto che anche la teologia dovrebbe risolvere con più audacia e coraggio (cosa che non è accaduta anche dopo la pubblicazione della Lumen gentium), non prestando il fianco a possibili fraintendimenti e ad una tensione irrisolta tra due improbabili modelli ecclesiologici. La difficoltà, infatti, si palesa in particolare quando si fa riferimento alla partecipazione dei laici alla celebrazione eucaristica. Sebbene, infatti, si insista sul fatto che i fedeli stessi offrano a Dio la vittima divina e insieme ad essa offrano sé stessi, in virtù del battesimo attraverso il quale, per mezzo del carattere sacramentale, sono deputati al culto cristiano, «tuttavia, mentre si insiste che tale partecipazione non è indistinta, ma secondo il ruolo di ciascuno, non si dice che il soggetto è la Chiesa in quanto tale, il corpo di Cristo unito al capo (cf. SC 7). Di conseguenza, l’unità del popolo di Dio risulta piuttosto effetto della celebrazione, e non anche condizione per celebrarla: se è vero che “l’Eucaristia fa la Chiesa”, è anche vero che “la Chiesa fa l’Eucaristia”, per dirla con Henri de Lubac, in quanto celebra quale corpo di Cristo, che celebrando manifesta “l’unità del Popolo di Dio, unità che il sacramento dell’Eucaristia mirabilmente esprime e realizza (LG 3)”». Inoltre, se è chiaro che i fedeli concorrono ad offrire

che perdura tuttora in alcuni ambienti. Occorre approfittare di questo tempo, nel quale abbiamo rischiato una sorta di “clericalizzazione della liturgia” (si pensi alle trasmissioni delle messe in streaming nelle quali veniva utilizzata spesso una sola telecamera e puntata sull’azione del presbitero: questo ci dice in qualche modo una certa assolutizzazione e un certo interesse all’azione del sacerdote piuttosto che all’azione di tutta l’assemblea: “Dimmi quante telecamere usi, e ti dirò che liturgia pensi o come pensi la liturgia!”), per insistere e riscoprire la teologia del sacerdozio comune che vede tutto il popolo di Dio, clero e fedeli (dunque battezzati) implicati nell’unica offerta e nell’unica lode a Dio, per mezzo del Figlio nello Spirito Santo, sebbene con differenti ministerialità e diversa partecipazione al sacerdozio di Cristo. Un rapporto che anche la teologia dovrebbe risolvere con più audacia e coraggio (cosa che non è accaduta anche dopo la pubblicazione della Lumen gentium), non prestando il fianco a possibili fraintendimenti e ad una tensione irrisolta tra due improbabili modelli ecclesiologici. La difficoltà, infatti, si palesa in particolare quando si fa riferimento alla partecipazione dei laici alla celebrazione eucaristica. Sebbene, infatti, si insista sul fatto che i fedeli stessi offrano a Dio la vittima divina e insieme ad essa offrano sé stessi, in virtù del battesimo attraverso il quale, per mezzo del carattere sacramentale, sono deputati al culto cristiano, «tuttavia, mentre si insiste che tale partecipazione non è indistinta, ma secondo il ruolo di ciascuno, non si dice che il soggetto è la Chiesa in quanto tale, il corpo di Cristo unito al capo (cf. SC 7). Di conseguenza, l’unità del popolo di Dio risulta piuttosto effetto della celebrazione, e non anche condizione per celebrarla: se è vero che “l’Eucaristia fa la Chiesa”, è anche vero che “la Chiesa fa l’Eucaristia”, per dirla con Henri de Lubac, in quanto celebra quale corpo di Cristo, che celebrando manifesta “l’unità del Popolo di Dio, unità che il sacramento dell’Eucaristia mirabilmente esprime e realizza (LG 3)”». Inoltre, se è chiaro che i fedeli concorrono ad offrire l’Eucaristia e, in virtù del Battesimo sono abilitati a offrire sacrifici spirituali a Dio graditi, è pur vero che l’offerta non è la somma dell’offerta dei singoli fedeli presenti all’eucaristia, ma della Chiesa intera unita nell’unico atto di culto e in comunione alla continua offerta di Cristo al Padre.

L’assemblea liturgica, dunque, nel gesto di radunarsi rappresenta tanti corpi che formano un unico corpo: l’assemblea cultuale, popolo sacerdotale. Dovremmo, perciò, riscoprire pian piano e nuovamente il “gesto del radunarsi” (potrebbe essere un buon punto di avvio alla ripartenza), dopo aver celebrato per diverso tempo separati, insieme alla riscoperta della ministerialità nell’assemblea, non ridotta a “servizio d’ordine” nelle chiese ma che riscopre anche il servizio dell’accoglienza. Uno dei momenti, comune a tutte le celebrazioni, ma allo stesso tempo tra i più trascurati, è proprio quello del raduno del popolo di Dio, ossia il momento “primo” dell’azione liturgica e nel quale l’assemblea santa, convocata da Cristo, si raduna per celebrare insieme il rito, in particolare la santa cena. L’assemblea è, infatti, il segno sacramentale della presenza del Signore che viene «per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi» (Gv 11, 52) e per renderli «perfetti nell’unità» (Gv 17, 20-23; cf. Gal 3, 28; Ef 2, 14-15). Essa appare, perciò, come il primo grande segno di cui si fa esperienza nella celebrazione e all’interno del quale si pongono tutti gli altri. “Fare assemblea” è, dunque, il primo gesto che il battezzato pone in atto nel culto cristiano e che dovremmo recuperare e valorizzare nel post-pandemia. Esso, infatti, si manifesta non semplicemente perché prega o pone in atto dei gesti, quanto piuttosto perché capace di comunione (cf. Gv 13, 35; 17, 21). L’assemblea radunata, infatti, è il soggetto celebrante dell’azione liturgica

alla quale, insieme al soggetto “primo” che è Cristo stesso, ha diritto di partecipare, in forza del sacramento del battesimo, attivamente, coscientemente e fruttuosamente. L’assemblea non funge da “comparsa” nell’azione liturgica (come, ahimè, è accaduto in questi mesi attraverso i monitor), ma, insieme all’“Attore-Primo”, è chiamata a partecipare dell’evento di salvezza operato dal Padre. Non sarebbe inopportuno, in un prossimo futuro, anche un richiamo alla unità nei gesti e negli atteggiamenti nella liturgia, in riferimento proprio all’unità della Chiesa, espressa dalla sinassi eucaristica in specie e dalla celebrazione liturgica in genere, in cui sono implicati i diversi registri che compongono la celebrazione e che ne manifestano il profondo valore teologico di epifania ecclesiale: «L’atteggiamento comune del corpo, da osservarsi da tutti i partecipanti, è segno dell’unità dei membri della comunità cristiana riuniti per la sacra Liturgia: manifesta infatti e favorisce l’intenzione e i sentimenti dell’animo di coloro che partecipano.»

2.1 Riscoperta del corpo nella liturgia

integrale dell’azione liturgica, Y.M. CONGAR, L’“ecclesia” ou communauté chrétienne, sujet intégral de l action liturgique, in Le liturgie après Vatican li (Unam Sanctam 66), Cerf, Paris 1967, 241-282

Si confronti a tal proposito la Sacrosanctum concilium al n. 7 la quale sottolinea la presenza “prima” di Cristo nella liturgia: «Per realizzare un’opera così grande, Cristo è sempre presente nella sua Chiesa, e in modo speciale nelle azioni liturgiche. È presente nel sacrificio della messa, sia nella persona del ministro, essendo egli stesso che, “offertosi una volta sulla croce, offre ancora sé stesso tramite il ministero dei sacerdoti”, sia soprattutto sotto le specie eucaristiche. È presente con la sua virtù nei sacramenti, al punto che quando uno battezza è Cristo stesso che battezza. È presente nella sua parola, giacché è lui che parla quando nella Chiesa si legge la sacra Scrittura. È presente, infine, quando la Chiesa prega e loda, lui che ha promesso “Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, là sono io, in mezzo a loro” (Mt 18, 20)». A tal proposito, afferma Bonaccorso: «Il “mistero celebrato”, Dio, è sempre anche il “celebrante principale”», G. BONACCORSO, Celebrare la salvezza. Lineamenti di liturgia (Caro salutis cardo. Sussidi 6), Messaggero, Padova 20032, 79.

Cf. SC n. 14.

É secondo questa prospettiva che occorre leggere il n. 42 dell’Ordinamento Generale del Messale Romano.

Questa attenzione apre le porte certamente ad un altro argomento, correlato a quanto scritto in precedenza.

Abbiamo vissuto un periodo in cui il corpo ci è stato sottratto insieme a tutte quelle relazioni (essenziali per l’uomo e per la liturgia) nelle quali il corpo è implicato direttamente, come già ricordavamo, e che dicono e fanno sì che la partecipazione possa essere “piena”: strette di mano, abbraccio e scambio di pace, prossimità agli altri nell’assemblea liturgica. Abbiamo addirittura tenuto le distanze mentre andavamo a ricevere la comunione o, per evitare i contatti, si passava tra i banchi per distribuirla.

Sappiamo bene come Cristo, nell’incarnazione, abbia voluto assumere tutta l’umanità, fuorché nella sua miseria dovuta al peccato, prendendo un corpo umano e mettendo in atto segni, simboli e gesti propri della condizione umana e che gli avrebbero permesso di entrare in rapporto e in comunione con l’uomo stesso; gesti che trovano il loro prolungamento nella liturgia. Il corpo, nella sua gestualità ed espressività, diventerà per Gesù il modo più diretto per conoscere, ammonire, guarire, donarsi e salvare l’uomo.

L’uomo stesso manifesta esteriormente tutto ciò che vive e sperimenta interiormente, sentimenti e pensieri, e lo fa servendosi di parole e di gesti. Le scienze antropologiche oggi tendono a spostare la loro attenzione dal linguaggio verbale al gesto, perché è proprio attraverso di esso che si può arrivare ad una conoscenza profonda dell’uomo. E proprio

Questa attenzione apre le porte certamente ad un altro argomento, correlato a quanto scritto in precedenza.

Abbiamo vissuto un periodo in cui il corpo ci è stato sottratto insieme a tutte quelle relazioni (essenziali per l’uomo e per la liturgia) nelle quali il corpo è implicato direttamente, come già ricordavamo, e che dicono e fanno sì che la partecipazione possa essere “piena”: strette di mano, abbraccio e scambio di pace, prossimità agli altri nell’assemblea liturgica. Abbiamo addirittura tenuto le distanze mentre andavamo a ricevere la comunione o, per evitare i contatti, si passava tra i banchi per distribuirla.

Sappiamo bene come Cristo, nell’incarnazione, abbia voluto assumere tutta l’umanità, fuorché nella sua miseria dovuta al peccato, prendendo un corpo umano e mettendo in atto segni, simboli e gesti propri della condizione umana e che gli avrebbero permesso di entrare in rapporto e in comunione con l’uomo stesso; gesti che trovano il loro prolungamento nella liturgia. Il corpo, nella sua gestualità ed espressività, diventerà per Gesù il modo più diretto per conoscere, ammonire, guarire, donarsi e salvare l’uomo.

L’uomo stesso manifesta esteriormente tutto ciò che vive e sperimenta interiormente, sentimenti e pensieri, e lo fa servendosi di parole e di gesti. Le scienze antropologiche oggi tendono a spostare la loro attenzione dal linguaggio verbale al gesto, perché è proprio attraverso di esso che si può arrivare ad una conoscenza profonda dell’uomo. E proprio

attraverso il corpo che l’uomo realizza la sua presenza nel mondo, ed è ancora per mezzo di esso che attua una prima conoscenza della realtà. «Non esiste esperienza ed espressione umana che non passi attraverso la corporeità; attraverso il “corpo vissuto”, il soggetto entra in relazione con le persone e le cose che lo circondano. Al di fuori della corporeità non esiste esperienza, non esiste relazione, non esiste comunicazione. La persona non può astrarsi; astraendosi non comunicherebbe e non vivrebbe alcuna esperienza.» I gesti sono un linguaggio che nel bambino precede l’uso della parola e che nell’adulto l’accompagna per sottolinearla, vivificarla. I gesti, nell’esprimere i sentimenti, li rafforzano e riescono a trasmetterli agli altri; per questo la gestualità costituisce la categoria più importante della comunicazione non verbale di cui pian piano dobbiamo riappropriarci.

A tal proposito Romano Guardini, nella sua opera Formazione liturgica, in riferimento ad un approccio pietistico, puritano e, oserei dire, “parolaio” alla preghiera afferma: «Queste posizioni lacerano o comunque indeboliscono la reale connessione fra corpo e anima: ad esse sfugge l’autenticità dell’umano. […] Il corpo umano è l’analogia dell’anima nell’ordine visibile corporeo. […] (L’uomo) prega e agisce con anima e corpo

E TRUDU, Comunicare con i gesti e il corpo nella liturgia, in Liturgia epifania del mistero. Per comunicare il Vangelo in un mondo che cambia. 53a Settimana liturgica nazionale. Assisi, 26-30 agosto 2001 (Bibliotheca “Ephemerides liturgicae”. Sectio pastoralis 23),

CLV-Edizioni Liturgiche, Roma 2003, 158.

Romano Guardini fa osservare come «secondo la concezione dualistica il corpo non fa parte della dignità, dell’essenza dell’uomo: esso è accessorio, inferiore o addirittura pericoloso. L’anima agisce nel corpo incarcerata e ha il compito di liberarsene. Così pensa il neoplatonismo, così la gnosi ed il manicheismo, così più di una corrente della spiritualità contemporanea. Espresso diversamente, ma in fondo orientato nella stessa direzione è il modo di pensare del puritano, che afferma l’esigenza del “puro spirito”, di una religiosità “spirituale”, e sente il corporeo come una degradante mescolanza. Il pietismo sostituisce un’aspra spiritualità con una intima pienezza dell’anima: la sua religione dell’interiorità è in fondo parimenti dualistica poiché anch’essa nel comportamento liturgico del soggetto prescinde dal corpo», R. GUARDINI, Formazione liturgica, Edizioni O.R., Milano 1988, 21.

insieme: con il corpo “animato”, con l’anima che si esprime nel corpo.»
La liturgia implica la persona nella sua totalità, nella sua dimensione orante, direi ecclesiale che, come ci ha ricordato in maniera inequivocabile la riforma del Vaticano II, coinvolge tutto l’essere, fatto di anima e di corpo, o meglio, dove anima e corpo sono frutto di un atto unico del Creatore. Lo stesso Romano Guardini osserverà come «ciò che opera nell’azione liturgica, che prega, offre e agisce non è “l’anima”, non “l’interiorità,” bensì “l’uomo”: è l’“uomo intero” che esercita l’attività liturgica, l’anima, sì certamente, ma solo in quanto essa vivifica il corpo. L’interiorità, sì certamente, ma solo in quanto si manifesta nel corpo.» Non è solo lo spirito, dunque, implicato nella liturgia, con il rischio di cadere in un approccio al culto pietistico e puritano, come condannato da Guardini e al quale forse la pandemia ci stava abituando (partecipazione spirituale; comunione spirituale — intesa, ahimè, nella sua riduzione subita lungo i secoli come surrogato della liturgia, mentre nasce come pienezza di partecipazione, senza escludere il corpo; coinvolgimento spirituale), ma il corpo credente e orante nella sua integrità. In questi mesi abbiamo assistito ad una sorta di “super-valutazione” del verbale e una inflazione del non verbale (gesti, atteggiamenti, segni, simboli). E attenzione: questo anche per quanto riguarda il rapporto “Parola-sacramento”: la Parola non è solo quella proclamata e ascoltata, ma anche quella che si fa efficace nel sacramento, in un’unità d’azione: proclamazione-efficacia, data da una equilibrata coordinazione tra Parola e gesto.

Tutto questo dovrebbe richiamare anche i ministri ad una rinnovata ars celebrandi.
Per questo occorre riscoprire una liturgia più “umana”, che esprima il “corpo ecclesiale” e la “corporalità umana, fisica” (che a sua volta esprime l’umanità di Cristo) quali

lbid., 22.29-30.

Ibid., 21.

mezzi per entrare in rapporto con Dio, il quale è venuto a salvare Inumanità dell’uomo”!
Insieme al corpo, dovremmo riscoprire anche il valore e il coinvolgimento dei sensi nella liturgia e dei vari codici rituali che entrano in gioco nella celebrazione (vedi i 13 codici che Schermann assembla sinergicamente nella liturgia), dinanzi a un virus che, tra le conseguenze più caratteristiche, ci ha negato anche l’uso dei sensi, specie del gusto e dell’olfatto.

Due sensi che anche nella liturgia abbiamo forse dimenticato (al di là dell’incenso — fiori freschi che profumano e dicono la vita, la risurrezione; profumare l’aula; il profumo del pulito dei lini, che dicono la bellezza della liturgia; la comunione sotto le due specie, che per motivi di possibile contagio abbiamo dovuto sospendere del tutto).

2.2 Tutto il corpo celebra! La liturgia non scarta nessuno Più volte Papa Francesco, specie in questo periodo di emergenza sanitaria, ci ha invitato a non cedere alla “cultura dello scarto”. Questa pandemia ci ha aperto gli occhi, se ce ne fosse stato bisogno, al mondo della malattia, del disagio, della fragilità umana: in questo periodo siamo stati invitati a riscoprire la presenza di Cristo non solo nella liturgia ma anche e soprattutto nei malati che hanno vissuto con maggiore criticità questo tempo, cercando vie di prossimità paradossalmente nel distanziamento. Questo ci ha fatto riflettere anche riguardo al rapporto tra le nostre liturgie e la disabilità: in un periodo in cui molti erano i contagiati o disabili costretti a casa, ci siamo accorti che le nostre assemblee liturgiche debbono essere “assemblee allargate”, che accolgono anche i fragili e le persone spesso emarginate anche dalle nostre chiese. Anche quelle che non potranno mai venire in chiesa e che giacciono a casa inferme. «La Chiesa in preghiera raccoglie tutti coloro che hanno il

Cf. J. SCHERMANN, Il linguaggio nella liturgia. I segni di un incontro, Cittadella, Assisi, PG 2004, 108-127.

cuore in ascolto del Vangelo, senza scartare nessuno: sono convocati piccoli e grandi, ricchi e poveri, fanciulli e anziani, sani e malati, giusti e peccatori. Ad immagine della ‘moltitudine immensa’ che celebra la liturgia nel santuario del cielo (cf. Ap 7,9), l’assemblea liturgica supera, in Cristo, ogni confine di età, razza, lingua e nazione. La portata ‘popolare’ della liturgia ci ricorda che essa è inclusiva e non esclusiva, fautrice di comunione con tutti senza tuttavia omologare, poiché chiama ciascuno, con la sua vocazione e originalità, a contribuire nell’edificare il corpo di Cristo.»
Uno dei meriti della riforma liturgica è stato quello di ricordarci che il fedele partecipa alla liturgia con tutto sé stesso, ossia non solo con la sua anima e il linguaggio verbale ma, come abbiamo ricordato sopra, con la sua corporalità e gestualità. Potremmo dire, perciò, che il cristiano celebra “con tutto il corpo”. Ma questa affermazione possiamo leggerla anche da un’altra prospettiva… Quale corpo intendiamo? Unicamente la nostra fisicità? A noi piace rileggere questa attenzione della riforma indirizzata non solo al corpo “fisico”, ma anche al corpo “ecclesiale”, e dunque alla comunità. Questa pandemia, perciò, ci ha convinto che particolare attenzione deve essere offerta a quelle persone che, per qualsiasi motivo, vengono emarginate o si escludono esse stesse dall’assemblea e dalla società, come ad esempio disabili, invalidi, anziani, poveri ecc.

“Celebrare con tutto il corpo”, perciò, vuol dire avere uno sguardo inclusivo nelle nostre celebrazioni, dove nessuno venga dimenticato, tollerato o addirittura emarginato. Quanta diffidenza, quanta paura “dell’altro” abbiamo vissuto in questo tempo: un possibile “positivo”, un possibile “untore”, dal quale tenersi alla larga e respingere. All’indomani della pandemia saremo chiamati a curare una liturgia di

FRANCESCO, Discorso del Santo Padre Francesco ai partecipanti alla 68ma Settimana Liturgica Nazionale (24/08/2017).

accoglienza e di prossimità.

Vorrei fare un passo in avanti ponendo l’accento su come tale integrazione debba riguardare l’ambito liturgico appunto, dove nessuno resti escluso o sia “scartato”, anche coloro che portano le ferite della malattia sulla loro carne o coloro che, addirittura, fanno difficoltà a comprendere ciò che accade attorno a loro perché privi dell’uso della ragione. Questa pandemia ha richiamato ancor di più l’attenzione e l’interesse della Chiesa sugli ospedali, le terapie intensive, le case di cura, le famiglie della parrocchia dove forse da anni giacciono in casa persone inferme che non si sentono più parte di una comunità che celebra; luoghi, questi, nei quali la Chiesa dovrebbe manifestare ancor di più la sua presenza e, allo stesso tempo, impegnarsi per una accoglienza di questi nostri fratelli nelle nostre liturgie (in parrocchia, negli ospedali, nelle case di cura…).

Ricorderemo tutti il racconto del lebbroso dove Gesù, restituendo la salute a quell’uomo, fa in modo che egli sia reintegrato anche all’interno della sua comunità e della sua gente (sappiamo bene come la lebbra rendesse impuri anche ritualmente e come facesse in modo che l’individuo fosse allontanato dalla comunità). 0 pensiamo anche all’emorroissa, che da anni aveva delle perdite di sangue (anche la perdita di sangue, nel modo ebraico, manifesta una certa impurità). Anche in questo caso Gesù purifica, sana, reintegra.

Una liturgia quella che ci attende, dunque, con uno sguardo inclusivo, affinché la presenza dei disabili (anche quelli ospitati nelle case di cura) possa essere assicurata e, di più, non sia limitata al solo “esserci”, o peggio tollerata o limitata straordinariamente ad alcune celebrazioni particolari, ma diventi una presenza “partecipata” ordinaria, consapevoli che la mancanza anche di uno solo di questi nostri fratelli limita e impoverisce tutto il corpo ecclesiale. Sarà importante, dunque, che nelle nostre diocesi e parrocchie si trovino vie, strategie,

linguaggi, modalità nuove e adattate a queste situazioni di modo che anche questi nostri fratelli possano sperimentare la gioia del celebrare insieme esprimendo nel rito la propria fede, affinché nessuno si senta scartato. I familiari stessi, come i genitori di bambini disabili, a loro volta non provino imbarazzo o vergogna accompagnando i propri figli alla celebrazione, ma si sentano accolti. «Queste sono le situazioni che accadono nella maggioranza delle nostre parrocchie e che noi tutti accettiamo come soluzioni rapide e non coinvolgenti, invece di porci alcune domande sulla vita di comunione delle nostre comunità e su come lavorare sul nostro pregiudizio comunitario. Come fratelli nella fede, possiamo accettare queste soluzioni? Possiamo pensare che una famiglia e un fratello nella fede non possano partecipare all’incontro con il Signore? Possiamo sentirci comunità vera attorno al Signore che viene a far festa, se manca qualcuno degli invitati al banchetto? Non ci sentiamo chiamati, in quanto comunità, a realizzare l’abito della festa per questi nostri fratelli e sorelle disabili?»
L’incontro con il mondo della disabilità e la ricerca di modalità nuove per accogliere i nostri fratelli nelle nostre liturgie, può essere anche l’occasione per ripensare e rimodellare il nostro stile celebrativo. A noi, che rischiamo di essere “consumatori del sacro” e per i quali il rito può diventare “usa e getta”, in questo tempo di pandemia le persone disabili, con i loro ritmi particolari, possono ricordarci «che la fede e un cammino, le loro fragilità mettono in discussione le comunità cristiane nel percepire la fede non come il percorso di un fiume tranquillo che prosegue autonomamente, ma le interpella a divenire un “noi”. Le comunità possono essere spinte, pertanto, a mettersi in discussione sul loro modo di celebrare e a cambiarlo attraverso l’incontro con questi fratelli e sorelle.

V. DONATELLO, Liturgia e disabili. L’arte di celebrare con tutto il corpo, “Rivista di pastorale liturgica” 308 (2015), 28.

Possiamo favorire la fede e l’adesione personale al Signore attraverso la “partecipazione alla liturgia domenicale e testimoniare, attraverso la loro condizione, il dono e la gioia della fede e l’appartenenza piena alla comunità cristiana”, in quanto il Signore e capace di trovare strade per incontrare tutti i suoi figli, anche quelli in situazioni particolari.»

L’intera esistenza di Gesù è stata una liturgia ospitale: «Sempre si mostrò misericordioso verso i piccoli e i poveri, verso gli ammalati e i peccatori, e si fece prossimo agli affaticati e agli oppressi,» e anche le nostre liturgie sono chiamate a esserlo oggi più che mai. Per questo, negli anni che ci stanno davanti, la santità della liturgia sarà chiamata a declinarsi come santità ospitale; non una santità di distanza ma di prossimità, di modo che la celebrazione stessa diventi luogo della imitatio Chrìsti, nella quale a nostra volta imploriamo: «Apri i nostri occhi perché vediamo le necessità dei fratelli, ispiraci parole e opere per confortare gli affaticati e gli oppressi. Fa’ che li serviamo in sincerità di cuore sull’esempio di Cristo e secondo il suo comandamento. La tua Chiesa sia testimonianza viva di verità e di libertà, di giustizia e di pace, perché tutti gli uomini si aprano a una speranza nuova.»

3. Liturgia e new media: “estensione” della partecipazione attiva?

Durante il lock-down abbiamo vissuto una intensificazione dell’uso del digitale e dei new media’, siamo passati dalla DAD (didattica a distanza) alla LAD (liturgia a distanza) … Alcuni studiosi, dopo questa esperienza, propongono ormai una sorta di

bid., 30.

Messale romano riformato a norma dei decreti del Concilio Ecumenico Vaticano II e promulgato da Papa Paolo VI, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2020, Preghiera eucaristica V/4: Gesù passò beneficando, 513.

Ibid., V/4, 510.

complementarietà tra liturgia in presenza e on-line che, dal loro punto di vista, diventa in qualche modo on-life… La partecipazione attraverso i new media, per alcuni, non è una modalità fittizia, ma la massima estensione possibile dei nostri sensi e una sorta di prolungamento della liturgia parrocchiale nell’ambito domestico. Siamo ormai persuasi che la celebrazione trasmessa attraverso i new media, in periodo di pandemia e, in specie, per le persone impossibilitate a partecipare alla celebrazione nelle nostre comunità, possa essere una modalità, seppur con i suoi numerosi limiti, di partecipazione da parte delle fasce più deboli e fragili, soprattutto i malati. Ma non dimentichiamo che anche questi, se non fossero costretti dalla malattia, desidererebbero vivere i sacramenti nella comunità, insieme alla comunità, per esprimere il proprio senso di appartenenza ad un unico popolo di Dio e vivere nella gioia comune e condivisa il momento celebrativo. Credo, perciò, arrivi il tempo di disintossicarsi pian piano dalla celebrazione in video per riappropriarci della comunità e della presenzialità nella liturgia, per tornare a “fare corpo” e a partecipare attivamente e fruttuosamente. Questo sarà un deterrente nei confronti del rischio al quale, probabilmente, si è prestato il fianco in questo tempo di pandemia: considerare la liturgia seguita sui media come possibile sostituto della liturgia celebrata in comunità. Non si dimentichi che per la maggior parte si tratta di una modalità di partecipazione legata a un periodo storico particolare di emergenza. Occorre vigilare che questa modalità non sostituisca automaticamente la presenzialità o sia posta come alternativa.
Dal nostro punto di vista, oltre il fatto di non

La CEI, in tempi non sospetti, ha preparato una applicazione per la celebrazione della Liturgia delle Ore. Questa si presenta sia nella forma di testo digitale sia come una sorta di “celebrazione digitale”, ossia una registrazione di alta qualità delle diverse Ore proposta da musicisti, cantori e lettori (spesso attori che hanno dunque una ottima pronuncia dei testi della liturgia che vengono letti). Essa nasce come strumento per i malati, specie quelli costretti a letto, ai quali veniva comunque offerta la possibilità di partecipare alla Liturgia delle Ore, sebbene oggi sia diventato il “breviario portatile” dei preti…

poter partecipare in pienezza, ad esempio, alla comunione eucaristica e non potendo attivare tutti i codici partecipativi alla liturgia sopra menzionati, rispolverando così fragili e parziali “modalità” di “partecipazione” come la cosiddetta “comunione spirituale”, si rischia di fare a meno della comunità, della Chiesa come assemblea cultuale che insieme partecipa e offre il sacrificio. Inoltre (ma qui apriremmo un capitolo enorme che non abbiamo il tempo di trattare in maniera esaustiva), secondo il principio dell’incarnazione, al quale abbiamo già fatto riferimento, Cristo ha scelto di farsi carne e di entrare in relazione con l’uomo attraverso la materialità e la fisicità che, a buon diritto, vantano la loro imprescindibilità anche nell’atto liturgico sacramentale dove il fine non è quello di acquisire e immagazzinare delle informazioni, quanto piuttosto essere coinvolti e toccati in una esperienza relazionale. Il Documento La Chiesa e internet, del Pontificio Consiglio delle Comunicazioni Sociali, sottolinea come «sebbene la realtà virtuale del ciberspazio non possa sostituire una comunità interpersonale autentica o la realtà dei Sacramenti e della Liturgia o l’annuncio diretto e immediato del Vangelo, può completarli, spingere le persone a vivere più pienamente la fede e arricchire la vita religiosa dei fruitori. Essa è per la Chiesa anche uno strumento per comunicare con gruppi particolari come giovani e giovani adulti, anziani e persone costrette a casa, persone che vivono in aree remote, membri di altri organismi religiosi, che altrimenti non sarebbe possibile raggiungere.» E tuttavia aggiunge: «Parimenti […] la realtà virtuale del ciberspazio ha alcune preoccupanti implicazioni per la religione come anche per altri settori della vita. La realtà virtuale non può sostituire la reale presenza di Cristo nell’Eucaristia, la realtà sacramentale degli

Cf. M. BELLI, Ma la messa in TV “vale”? Piccole precisazioni a fronte di una domanda frequente, “Rivista di pastorale liturgica” 338 (2020), 1, 25.

Pontificio Consiglio Delle Comunicazioni Sociali, La Chiesa e internet (22 febbraio 2002), n. 5.

altri Sacramenti e il culto partecipato in seno a una comunità umana in carne e ossa. Su Internet non ci sono Sacramenti. Anche le esperienze religiose che vi sono possibili per grazia di Dio, sono insufficienti se separate dall’interazione del mondo reale con altri fedeli. Questo è un altro aspetto di Internet che richiede studio e riflessione. Al contempo, la programmazione pastorale dovrebbe riflettere su come condurre le persone dal ciberspazio alla comunità autentica […].» Inoltre, dal 1948, quando per la prima volta si trasmise la messa in TV dalla Basilica di Notre-Da- me, la domanda che spesso ricorre e che certamente ci siamo sentiti porre in questo tempo di pandemia è stato e temo sarà ancora: «Ho visto la messa in TV: “mi vale” ugualmente?» Diversi sono stati gli articoli scritti in merito; ciò che mi pare urgente è riattivare una formazione liturgica, ed eucaristica in particolare (approfittando anche della scia della pubblicazione della traduzione della terza edizione del Messale in lingua vernacolare) che, oltre a superare l’idea del “precetto” (ci ritornerò tra poco) per una comprensione più ampia dell’eucaristia, aiuti a comprendere la differenza tra una parziale e limitata “partecipazione” alla liturgia attraverso i new media e una partecipazione piena e autentica al rito insieme alla comunità. Inoltre, sinché la nostra riflessione e la nostra pastorale continueranno a insistere unicamente su “cosa significano i sacramenti” e meno su “come significano”, tutto l’interesse verterà più sul contenuto mentale del sacramento e sulla acquisizione del contenuto stesso da parte del fedele. E per questo rischiano di bastarci le immagini e le parole che gli stessi media ci offrono. Occorre, invece, far comprendere come «il

Ibid., n. 9.

Belli, Ma la messa in TV “vale”? Piccole precisazioni a fronte di una domanda frequente, 25

Si prendano in considerazione i fascicoli monografici seguenti: La celebrazione fra tecnologia e virtualità, “Rivista Liturgica” 99 (2012); Liturgia e new media, “Rivista Liturgica” 107 (2020); New media e liturgia, “Rivista di Pastorale Liturgica” 338 (2020). Più in generale: Internet e Chiesa, “Credere oggi” 183 (2011).

rito non è mai un’esperienza di corporeità ridotta, ma è un’esperienza di corporeità complessa,» che coinvolge (come già detto) diversi codici linguistici, trasmettendosi e ponendosi in atto per signa sensibilia e per ritus et preces.

Credo, invece, sia una buona pratica che, per raggiungere gli infermi e coloro che sono realmente impossibilitati ad unirsi alla comunità, nelle parrocchie delle nostre diocesi si mantenga la celebrazione in streaming (in alcune parrocchie è diventata ormai una prassi che vanta diversi anni di esperienza, o attraverso radio parrocchiali o circuiti interni) piuttosto che invitare alla visione di celebrazioni “anonime” trasmesse normalmente nelle reti nazionali. Nella prima, infatti, i fedeli hanno il vantaggio di sentirsi in comunione, almeno visiva, uditiva e in un certo qual modo partecipativa, con il proprio parroco e la propria comunità che pregano anche a distanza, sperando di essere raggiunti in seguito per una visita ed eventualmente la confessione e la comunione sacramentali. Tuttavia queste trasmissioni dovranno curare maggiormente lo stile celebrativo, come anche l’uso delle strumentazioni audio e video di modo che la celebrazione possa essere trasmessa con una buona qualità che faciliti una “certa partecipazione”. Occorre anche prepararsi a una partecipazione al massimo attiva anche in streaming: la cura dei segni (pane e vino; una candela; Tabito della festa). Si dovrebbero invitare, inoltre, i fedeli a disporsi in un luogo della casa ben curato, pur nella semplicità, e che aiuti al raccoglimento e alla preghiera.

Si evitino celebrazioni in differita che inducono a una partecipazione passiva e a tratti “artificiale”; la diretta, invece, consente il darsi dell’evento.

Ci si chiede infine: solo la messa può essere trasmessa in TV o via streaming? O si potrebbero valorizzare anche altre celebrazioni? E questo ci apre ad un altro argomento

Belli, Ma la messa in TV “vale”? Piccole precisazioni a fronte di una domanda frequente, 27.

4. Rivalutare la ricchezza delle diverse forme di preghiera della Chiesa

Un teologo dei nostri tempi osservava: «Il desiderio di assemblea liturgica (che in questo tempo stiamo sperimentando) chiede un grande salto di qualità. La liturgia è percepita come altamente desiderabile, ma non se ne conosce il valore più autentico. Si oscilla tra “adempimento istituzionale” a “attaccamento sentimentale”. Durante l’astensione forzata dalla eucaristia e dalla confessione, non dobbiamo necessariamente fermarci al “votum sacramenti”: il rapporto con il mistero pasquale accade anche nella Parola ascoltata, nella preghiera ritmata e nella penitenza narrata.» Dinanzi a giorni in cui non è stato possibile partecipare alla eucaristia (soprattutto al popolo di Dio) abbiamo riscoperto l’importanza di altre forme di preghiera, anche familiare, che dovremmo valorizzare e approfondire.

Il COVID, forse, ci ha dato l’input per poterle riscoprire e valorizzare maggiormente. Tra queste, in primis, la Liturgia delle Ore per la santificazione del tempo, anche questo tempo così torbido e doloroso. Il fatto di non poter celebrare ogni giorno l’eucaristia ci ha portato a riscoprire la Liturgia delle Ore nel suo valore “eucaristico”, “sacrificale”; celebrazione del Mistero pasquale quale preparazione al “dies dominicus” e distensione dello stesso nelle ore del giorno.

La preghiera salmica è, infatti, sacrificium laudis al pari dell’eucaristia. Quest’ultima, certamente, rappresenta il luogo “decisivo” della preghiera di azione di grazie attraverso il quale si offre il sacrificio a Dio, ma non il luogo “esclusivo”. Diremmo perciò “plenario” o, con il Sacramentarium Veronense, principale munus, ma non “totalitario” in quanto la preghiera cristiana è

A. GRILLO, La nostalgia e il desiderio della liturgia. Lo spazio delle comunità residuali, “Rivista di Pastorale Liturgica” (2020), 4 (formato pdf).

sacrificium laudis che si esplica nella lode, supplica, azione di grazie, confessione di fede, sebbene la preghiera eucaristica, per la sua natura e il suo grado di ecclesialità rappresenti la pienezza di quella qualità sacrificale propria di tutta la preghiera cristiana. Perché allora il maximum (in questo caso la celebrazione eucaristica), nelle nostre celebrazioni parrocchiali, deve sempre costituire l’unicum? Sono gli stessi PNLO che ci invitano a restituire il meritato spazio, “nella Liturgia”, alla Liturgia delle Ore, facendo osservare che «Cristo ha comandato: “Bisogna pregare sempre senza stancarsi” (Le 18, 1). Perciò la Chiesa, obbedendo fedelmente a questo comando, non cessa mai d’innalzare preghiere e ci esorta con queste parole: “Per mezzo di lui (Gesù) offriamo continuamente un sacrificio di lode a Dio” (Eb 13,15). A questo precetto la Chiesa ottempera non soltanto celebrando l’Eucaristia, ma anche in altri modi, e specialmente con la Liturgia delle Ore.»

La Liturgia delle Ore è, dunque, la Parola di Dio celebrata che ci apre e ci prepara alla Liturgia della Parola dell’eucaristia; la supplica che, attraverso i salmi, ci prepara al grande Kyrie; la “preghiera eucaristica” della Chiesa che prepara alla grande anafora della messa; la lode alla Trinità che continua la dossologia maggiore: “Per Cristo, con Cristo e in Cristo”; il sacrificium laudis che prepara i fedeli al culmen del sacrificium eucharisticum.

Al n. 12 del PNLO, riguardo il rapporto della Liturgia delle Ore con l’eucaristia, si dice: «La Liturgia delle Ore estende alle diverse ore del giorno le prerogative del mistero eucaristico, “centro e culmine di tutta la vita della comunità cristiana”: la lode e il rendimento di grazie, la memoria dei misteri della salvezza, le suppliche e la pregustazione della gloria celeste. La celebrazione dell’eucaristia viene anche

Cf. G. BOSELLI, Sacrificium laudis. La preghiera come sacrificio, “Rivista Liturgica” XCV (2008), 5, 95

Principi e Norme per la Liturgia delle Ore, n. 10.

Cf. RA. MURONI, Liturgia delle Ore: prospettive future, “Ecclesia orans” 26 (2009), 164-171.

preparata ottimamente mediante la Liturgia delle Ore, in quanto per suo mezzo vengono suscitate e accresciute le disposizioni necessarie alla fruttuosa partecipazione dell’Eucaristia, quali sono la fede, la speranza, la carità, la devozione e il desiderio dell’abnegazione di sé». In questo paragrafo viene evocato l’essenziale della dimensione eucaristica della Liturgia delle Ore. Diceva Jordi Pinell: «Spetta in modo particolare alla Liturgia delle Ore la funzione di condurre i cristiani ad una partecipazione progressiva al mistero salvifico di Cristo mediante l’orazione.»

Pensando alle prospettive future dopo la pandemia, credo sia necessario promuovere una Liturgia delle Ore che scandisca questa progressività, che prepari alla celebrazione eucaristica, ma non tanto nell’immediatezza dell’atto celebrativo della messa, quanto piuttosto in preparazione al dies dominicus che nell’eucaristia ritrova il culmen et fons della vita della Chiesa. La settimana, infatti, origina dall’eucaristia domenicale (culmen) e viene affidata all’Ufficio divino, scandita dunque dalla celebrazione delle ore ritmata dal sacrificium laudis che a sua volta prepara ancora al culmen domenicale dell’eucaristia come salita al Monte Sion; ma eucaristia anche quale fons di vita spirituale per il credente, nella nuova settimana che si apre, dove la dimensione eucaristica viene estesa, rivissuta, ritualizzata nella Liturgia delle Ore, dal sacrificium laudis settimanale per poi riaprirsi e sfociare ancora una volta nell’ottavo giorno.

In questo tempo di restrizioni, si è percepito come ‘dire messa’ e ‘sentire messa’, da parte dei chierici e dei fedeli, sia sembrato l’unico orizzonte possibile. «Anche in assenza di comunità in presenza, sembra che l’unico vero registro comunicativo, su cui poter lavorare, resti solo la messa. Mentre la liturgia oraria, la liturgia della parola, la liturgia penitenziale, le meditazioni, le predicazioni sembrano avere dignità solo se

c’è la messa. Alla messa può stare accanto, in qualche caso, soltanto il rosario, o la adorazione eucaristica sullo schermo. Questo passaggio dal grado zero al grado cento della esperienza orante non ci fa bene. Soprattutto ora avremmo bisogno di una esperienza articolata dei livelli e delle soglie di esperienza di preghiera e di celebrazione. Proprio questa articolazione permetterebbe un gioco diverso dei soggetti, dei ministeri e delle responsabilità. Soprattutto potrebbe rispettare una necessaria differenziazione dei modi, dei luoghi e dei tempi. Proprio a causa delle attuali limitazioni fisiche, spaziali e temporali, potremmo avere la opportunità di riarticolare l’esperienza rituale. Mentre questo passaggio brusco dal niente al tutto (un tutto molto limitato, ma pur sempre il ‘tutto eucaristico’ ad ogni costo) è uno degli aspetti su cui più forte è stata la domanda liturgica dovuta a questa emergenza.

Il recupero di una esperienza plenaria delle azioni rituali potrebbe passare proprio per questa porta stretta: se per necessità dobbiamo astenerci dalla celebrazione eucaristica e dalla celebrazione della confessione, non dobbiamo necessariamente fermarci al votum: possiamo invece riscoprire il rapporto con il mistero pasquale, cosi come accade nella Parola ascoltata, nella preghiera ritmata e nella penitenza meditata. Liturgie della parola, liturgie orarie e liturgie penitenziali, che non hanno vincoli ministeriali così forti, aprono spiragli di esperienza e di consolazione, di pace e di conforto. Quando domani potremo uscire di nuovo e tornare serenamente a radunarci, scopriremo forse di non poter più essere distratti, trascurati o inerti».

5. Rivalutare la liturgia domestica. La celebrazione parte dalla famiglia

Certamente la pandemia ci ha fatto riscoprire la famiglia come piccola Chiesa domestica ma anche come comunità cultuale

GRILLO, La nostalgia e il desiderio della liturgia. Lo spazio delle comunità residuali, 7-8 (formato pdf).

embrionale. Questa pandemia ci ha ricordato che la celebrazione comunitaria, nella chiesa parrocchiale, viene ottimamente preparata proprio all’interno delle nostre comunità familiari. Sarebbe da incentivare, come peraltro è stato fatto in questo periodo, la preghiera nelle nostre famiglie, attraverso anche una sussidiazione (con eventualmente anche delle app dedicate) che possa sostenere e accompagnare genitori e figli a riscoprire la preghiera celebrata nel focolare domestico. Occorre, anche qui, evitare un rischio al quale, probabilmente, si è prestato il fianco in questo tempo di pandemia: considerare la preghiera familiare come sostituto della liturgia celebrata in comunità. Bisogna innescare la dinamica dell’et-et, non dell’aut-aut, dove le due forme di preghiera coesistono: la prima, quella domestica, come addirittura propedeutica alla seconda (quella della comunità ecclesiale), preparazione e prolungamento della stessa nell’arco della giornata, riconoscendo il primato della celebrazione liturgica che riunisce l’intera comunità ecclesiale, ristabilendo i giusti equilibri. Questa sorta di ribilanciamento deve riguardare anche le forme di pietà popolare, che in questo periodo sono state intensificate, in rapporto alla liturgia: la prima origina dalla seconda, la prepara e indirizza verso di essa; non è fine a sé stessa.

Conclusione

Credo che la riflessione teologico-liturgica e pastorale debba non farsi trovare più impreparata ad una ulteriore eventualità di pandemia e di chiusura (non più, ahimè, così remota), al di là di strumenti teorici o giuridici che hanno caratterizzato questo tempo regolamentando il “si può” e “non si può fare” nella liturgia. Raccogliere i cocci che il passaggio di questo virus ha creato e ricostruire in maniera intelligente, nuova, fedele alla Tradizione della Chiesa e a servizio dell’uomo di oggi.

Credo che dobbiamo riascoltare con attenzione quanto il Santo Padre ci diceva nell’omelia di Pentecoste del 2020: «Peggio di questa crisi c’è solo il dramma di sprecarla, chiudendoci in noi stessi. Vieni, Spirito Santo: Tu che sei armonia, rendici costruttori di unità; Tu che sempre ti doni, dacci il coraggio di uscire da noi stessi, di amarci e aiutarci, per diventare un’unica famiglia. Amen».

Ref: (“Urbaniana University Journal”, e a “Pastoral Liturgica” 2/2021 LXXIV, pp. 165-189)
An English translation of this article will be available soon on SEDOS Website.

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