La Storia Di Rut E Noemi La Santità Vissuta Nella Gioia E Nell’amore

  1. Israele chiamato a diventare un popolo santo

“La ricchezza del concetto di santità nell’AT deriva dal fatto che essa è prospettata in relazione alla sua stessa sorgente, Dio, dal quale scaturisce ogni santità”[1]. Dio viene proclamato santo da epoca molto antica. La prima menzione di questo uso si trova nel cantico di Mosè, dove la santità di Dio è collegata allo straordinario evento di salvezza che fu il passaggio del mar Rosso (Es 15, 1-21). La santità di Dio si manifesta anche nella sua illimitata capacità di amare e di perdonare, come attesta un brano di Osea: “Non darò sfogo all’ardore della mia ira, non tornerò a distruggere Èfraim, perché sono Dio e non uomo; sono il Santo in mezzo a te e non verrò nella mia ira” (Os 11,9). Il parallelismo evidenzia che il termine santo viene applicato a Dio come attributo proprio della sua trascendenza e divinità (Os 12,1 ; Ab 3, 3). Dio può giurare per la sua santità, cioè per se stesso (Am 4, 2), e manifestarsi come colui che è santo (Lv 11,44:19, 2)[2].

Nel libro di Isaia si trova una prospettiva di grande rilevanza per quanto riguarda la santità di Dio. Il “Santo, santo, santo” (Is 6, 3a) che il profeta ascolta proclamato dai serafini in mezzo a una grandiosa teofania evidenzia una dimensione intima dell’essere di Dio, la sua maestosità, come chiarifica il versetto parallelo: “Tutta la terra è piena della sua gloria” (Is 6, 3b). Quando gli angeli che stanno intorno al trono esclamano l’uno all’altro “santo, santo, santo”, esprimono con forza e passione la verità della santità suprema di Dio, quella caratteristica essenziale che esprime la Sua natura imponente e maestosa. Sebbene Isaia fosse un profeta di Dio e un uomo giusto, la sua reazione alla visione della santità di Dio fu di temere per la propria vita (Is 6, 5). Se persino gli angeli al cospetto di Dio, esclamando “Santo, santo, santo è il Signore degli eserciti”, si coprivano il volto e i piedi con quattro delle loro ali, che sarebbe stato di lui? Coprirsi il volto e i piedi denota reverenza e timore provocati dal trovarsi improvvisamente davanti a Dio (Es 3, 4-5). I serafini stavano eretti, coperti, come per occultarsi il più possibile, in un atto di riconoscimento della propria indegnità al cospetto dell’Onnipotente.

La dimensione salvifica della santità di Dio è particolarmente sottolineata dal profeta Ezechiele (36,16-36) all’Interno del quadro della storia della salvezza nella quale avranno il posto anche i pagani (Is 61, 5). Israele ha ottenuto la promessa del Signore di diventare una nazione santa, come ricorda il ritornello che articola il codice di santità: “Siate santi, perché io, il Signore, Dio vostro, sono santo” (Lv 19, 2: Cfr. 20, 7). La chiamata a diventare un popolo santo richiedeva una corrispondenza decisa alla proposta divina. Condizione per diventare e rimanere popolo santo era ascoltare la voce del Signore e osservare la sua alleanza, cioè obbedire ai precetti della legge, fondati sul comandamento dell’amore del Signore, unico vero Dio (Dt 6, 4-8). La proposta della partecipazione nella santità di Dio, si apre anche ai pagani (Is 61, 5) come si deduce da quanto avvenne tra la moabita Rut e Noemi.

  1. La storia di Rut e Noemi

Il libro di Rut rievoca una patetica storia familiare del tempo dei Giudici (1200-1025 a. C.), dalla quale, oltre a delicati sentimenti umani, emergono alcuni elementi religiosi di grande importanza. Il ritorno di Israele dall’esilio in Babilonia, per esempio, contribuì a dare un ulteriore significato al concetto della partecipazione dello straniero nella storia della salvezza del popolo eletto Israele[3]. La storia presentata nel libro i Rut è dominata da due figure femminili. La prima è Noemi, costretta ad abbandonare il paese nativo per trasferirsi con il marito Elimèlech e i figli Maclon e Chilion in terra di Moab a causa di una carestia che aveva colpito la regione di Betlemme (Rt 1, 1 ; Cfr. Gen 12,10: 26, 1: 42, 1)[4]. La seconda è Rut, una donna straniera che sposa un parente del marito di Noemi[5]. Dopo alcuni

anni Noemi resta vedova e senza figli; “avendo sentito dire che il Signore aveva visitato il suo popolo dandogli del pane” decide di tornare “nel paese di Giuda” accompagnata dalle nuore Orpa e Rut (Rt 1, 16-22). Noemi vorrebbe rimandarle nella loro terra, ma Rut non solo non abbandona la suocera (Rt 2,11 ), ma assicura la sopravvivenza della famiglia accettando di sposare Booz. Ella entra, così, nella storia del popolo di Israele; popolo santo e consacrato a Dio, un evento che le permette di far parte di coloro cui è stata promessa la salvezza. In questo modo la storia di Rut diventa una risposta per coloro che tra gli Israeliti rifiutavano di mescolarsi con i popoli stranieri e le loro divinità. Israele deve capire che, per ottenere la salvezza ha bisogno degli stranieri e, per di più, delle donne.

La crisi dei matrimoni misti in Israele risale alla metà del V sec. a. C. quando il popolo di Giuda tornò dall’esilio babilonese. Non si sa come si comportarono gli Israeliti durante il periodo babilonese: forse i più fedeli tra i deportati si astennero dai matrimoni misti, mentre coloro che erano rimasti in Giudea fecero probabilmente il contrario, sia per la difficoltà di trovare donne israelite, sia per interessi economici e di convivenza (MI 2, 11 ; Ne 6, 18). Questo causò una nuova consapevolezza della necessità dei matrimoni tra Israeliti. Coloro che avevano contratto matrimoni pericolosi per il monoteismo furono costretti a divorziare dalle donne straniere. Sotto la spinta delle nuove circostanze, Esdra e Neemia richiamarono il popolo all’endogamia. Neemia, dopo aver ricoperto per tredici anni la carica di governatore della Galilea (445-432 a. C.), sarebbe ritornato alla corte achemenide. In una successiva visita a Gerusalemme, egli avrebbe corretto gli abusi insorti fra la gente, durante la propria assenza, nel tempio di Gerusalemme. Fra i diversi provvedimenti emanati dovevano rientrare anche quelli contrari ai matrimoni misti (Ne 13, 23-27). La funzione di Neemia si avvicina a quella svolta dal re nella ricostruzione della città; nell’indizione di una riforma religiosa e nell’attenzione posta alla legge. Si deve anche sottolineare il diritto che aveva il potere civile di legiferare in materia religiosa.

Esdra e Neemia ribadivano la fedeltà alle norme della legge, unendo alla motivazione religiosa anche una sottolineatura nazionalistica: “ (…) così hanno profanato la stirpe santa con le popolazioni locali (…)” (Esd 9, 2). Nella soluzione drastica richiesta da Esdra: ripudio delle mogli straniere, e soprattutto in quella, più diplomatica, di Neemia, dovuta con ogni probabilità al fallimento della prima, non ci sono elementi per affermare che i matrimoni misti di cui si parla, oltre che proibiti, fossero considerati anche invalidi[6].

Nel libro del Deuteronomio, la legge si occupa direttamente di questa possibilità e la giudica in modo negativo. Non ci dovevano essere alleanze con i popoli in mezzo ai quali vivevano gli Ebrei, e tanto meno matrimoni con loro: “Non ti imparenterai con loro, non darai le tue figlie ai loro figli e non prenderai le loro figlie per i tuoi figli, perché allontanerebbero i tuoi figli dal seguire me, per fargli servire a dei stranieri” (Dt 7, 3-4). La condanna contro gli Ammoniti e i Moabiti stabiliva che essi non sarebbero mai entrati a far parte della comunità del Signore, fino alla decima generazione (Dt 23, 4). Gli antichi avevano un atteggiamento non sempre favorevole verso gli stranieri, perché essi avevano una religione diversa che poteva sedurre il popolo eletto (Dt 20, 17) e potevano in questo senso, essere dei nemici[7].

Nei tempi del ritorno del popolo eletto dall’esilio babilonese, questa norma era diventata molto più severa che in passato. Ma la comunità ritornata dall’esilio babilonese, ha dovuto aprirsi, pur nella riscoperta di una fedeltà a Dio, nella propria identità religiosa e nazionale, a un’accoglienza verso gruppi marginali perché ha riconosciuto di essere stata essa stessa, nella propria storia, un gruppo marginale salvato e amato da Dio[8].

  1. L’amore di Rut per Noemi è un modello per il popolo di Israele

Rut, dopo essere arrivata a Betlemme con la suocera Noemi, cominciò a fare la spigolatrice. Questa usanza era permessa dalla legge (Dt 24, 19-21), che imponeva ai proprietari di lasciare ai poveri le spighe cadute. La provvidenza la condusse nel campo di Booz, il quale la prese a benvolere e non solamente l’autorizzò a spigolare, ma diede ordine ai mietitori di lasciare sul campo mannelli di spighe (Rt 2, 10-12). Così una sera Rut tornò a casa “con un’efa di orzo e lo mostrò alla suocera”. Essa restò a spigolare nei campi di Booz per tutta la mietitura dell’orzo e del frumento.

Col tempo Booz sposò Rut[9] e dalla felice unione nacque un figlio a cui fu posto il nome di Obed, padre di Iesse, che a sua volta sarà padre di Davide (Rt 4,16) dalla cui discendenza nacque il Messia, che sarebbe venuto per dare salvezza a Israele. Rut, dopo aver sposato Booz e accettato la religione del marito, divenne una proselita, per questo l’autore del libro può dichiararla addirittura antenata di Davide.

Il filo conduttore che univa la giovane vedova Rut alla suocera Noemi, a sua volta vedova, era così forte che le due donne non si separarono più e aiutò Rut a non rifarsi una vita nel suo Paese di origine. Tale sentimento di scambievole amore e dedizione diventa un modello per il popolo di Israele. Modello contraddistinto dal riconoscimento e dal rispetto della libertà dell’una e dell’altra. Noemi vorrebbe rimandare Rut nella sua terra (Rt 1,14), a casa dei suoi genitori, dove può sentirsi più sicura. Non vuole trattenerla, farla sua, perché non ha nulla da offrirle se non il suo amore senza nome. Per questo motivo le chiede di andarsene (Rt 1,14). Ma Rut, senza pensarci troppo, la supplica umilmente: “Non forzarmi a lasciarti e ad allontanarmi da te, perché dove tu andrai, andrò anch’io e dove tu dimorerai anch’io dimorerò; il tuo popolo sarà il mio popolo e il tuo Dio sarà il mio Dio” (Rt, 1,16). Questa storia fa vedere come la mano di Dio sia all’opera anche nel pieno della storia quotidiana. Nella vita di coloro che sono fedeli, l’amore di Dio diventa realtà concreta. La storia di Rut testimonia il valore che le nostre azioni di bontà e di fedeltà hanno nel piano salvifico di Dio[10]

(Ref: Religiosi in Italia, N° 430, pp.59 – 65)

[1] Michelangelo TÁbet, “Santità”, in Temi teologici della Bibbia, a cura di R. PENNA, G. PEREGO, RAVASI, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 2010, 1338.

[2] Ibidem, 1339

[3] Il libro di Rut fu scritto nel V-IV sec. a. C.

[4] Il nome ebraico Betlemme significa “casa del pane” (Rt 1, 6). Cfr. L. Monloubou e F. M. Du Buit, “Moabiti”,

in Dizionario biblico storico critico, Borla, Roma 1987, 650.

[5] I moabiti erano esclusi dalla comunità israelita per conflitti accaduti nel passato (Dt 23, 3-4).

[6] Questi episodi hanno un aspetto doloroso, perché molti di questi matrimoni erano certamente stati celebrati per una

scelta di amore vero. Le donne che erano state scelte, non avevano colpa per il fatto di appartenere ad altri popoli,

né potevano essere accusate di cattive azioni, se erano rimaste fedeli alle convinzioni religiose dei loro padri.

Certamente, però, avevano agito male quegli Ebrei che avevano contratto matrimonio violando le proprie leggi; sì

erano lasciati influenzare dalle loro spose e, invece di trasmettere ad esse il messaggio dell’alleanza stabilità da Dio

con il suo popolo, avevano tradito la fede nel Signore. Cfr. G. Tonucci, “Le donne straniere cacciate via”, in

Messaggio della Santa Casa, Loreto (Maggio 2012) 165s.

[7] Cfr. J. H. Friedrich, “Xenos”, in Dizionario Esegetico del Nuovo Testamento, a cura di H. Balz e G. Schneider,

vol. II, Paideia Editrice, Brescia 2004, 531-532.

[8] Dal punto di vista sociale, gli stranieri residenti erano persone libere, ma si comportavano come se fossero schiavi.

Gli stranieri mantenevano la loro libertà, potevano stabilirsi nella comunità, ma non avevano tutti diritti politici.

[9] Noemi rinuncia al diritto del levirato (Dt 25, 5-10) e consiglia Rut di indurre Booz a prenderla in moglie (Rt 3,1).

Secondo la legge, il nome di “matrimonio leviratico” si riserva al matrimonio tra la vedova senza figli e suo

cognato, fratello del marito defunto (Dt 25, 5-10). La legge determina esplicitamente gli obblighi dei familiari del

defunto. Alla vedova si proibisce di sposarsi con persone estranee alla famiglia, per non rinunciare a dare una

discendenza legittima al marito defunto, e poter perpetuare, così, il suo nome. Al fratello del defunto si ricorda il

grave obbligo di sposarsi con la cognata vedova per mantenere vivi in Israele il nome e la memoria del fratello

defunto, dandogli un figlio che sarà considerato figlio legittimo del defunto a tutti gli effetti. Nel caso che il cognato

non voglia sposarsi con sua cognata, verrà seguito il processo prescritto nella legge, e la vedova resterà libera di

sposarsi con chi vuole.

[10] Cfr. P. Viviano, “Rut. Guida alla lettura”, in Introduzione generale allo studio della Bibbia, Edizione italiana a cura di

  1. Dalla Vecchia, – A. Nepi, – G. Corti, Qumraniana, Brescia 1996, 199; G. Witaszek, “Uniwersalizm religijny w

Księdze Rut”, in Biblia podstawą jedności, A. R. Sikora (Red.), Red. Wydaw. KUL, Lublin 1996, 37-48; F.

Raurell, “Rut, l’amore come dialogo”, in RCat T37/1 (2012) 181-201.

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