La missione è cambiata e sta ancora cambiando. A ben vedere, la missione, oggi ha persino una nuova missione: quella di cambiare il volto chiesa. Da questo punto di vista, c’è un collegamento diretto col Sinodo, le cui tre parole chiavi indicate da Papa Francesco sono: comunione, partecipazione e missione.
Tutti e tre questi termini, però, non solo l’ultimo, appartengono al lessico della missiologia, la quale ha, tra i suoi compiti, quello di unire ed includere non solo i membri “formali” della chiesa, ma anche i popoli, le culture e le religioni. Dall’attuale convocazione sinodale, però, si deduce come, nel corpo ecclesiale, sia attualmente presente uno scollamento, per non dire divisione, che sta indebolendo la chiesa, e, conseguentemente, la sua capacità di annuncio. I padri sinodali sono dunque chiamati a creare una chiesa maggiormente unita, partecipativa e missionaria sia al suo interno – potremmo dire a livello radiale – tra la gerarchia, i laici e le donne, sia al suo esterno – potremmo dire a livello tangenziale – tra le società, le culture e le religioni. Se non si riuscisse a raggiungere una tale sinodalità, è facile prevedere, nel prossimo futuro della chiesa, una grave crisi. Potremmo anche affermare, utilizzando parole diverse, che la stessa missiologia ha una missione sinodale, perché la sua missione precipua quella di unire popoli, culture e tradizioni religiose.
Finora, non tutti i missiologi hanno pianamente compreso che il loro è un compito sinodale, di sicuro non sono ancora riusciti a far arrivare, alla generalità dei cristiani, un messaggio essenziale: che la missione è un’urgenza primaria; che la missione è compito di tutti; che la missione non è più legata solo alla partenza per terre lontane, perché va fatta anche qui. Questo modo nuovo di comprendere la missiologia non ha ancora messo radici nel mondo cattolico, sebbene papa Bergoglio abbia più volte affermato, e con chiarezza, che ogni singolo cristiano è chiamato ad impegnarsi nella missione (cf. EG 119). Nella costituzione apostolica Praedicate evangelium, ha significativamente anteposto il Dicastero per l’Evangelizzazione (cf. 53-68) a quello della Dottrina della Fede (cf. 69-78), e non poteva dare un messaggio più missiologicamente incisivo di questo.
Non c’è dubbio, al riguardo, che questo papa sarà ricordato come papa missionario, come è logico che sia considerando che viene da una terra di missione. Egli sa bene come la missione richieda profezia, intraprendenza, creatività, contestualizzazione, coraggio e innovazione. La grande differenza tra teologia e missiologia, consiste nel fatto che quest’ultima non può limitarsi a formalizzare la dottrina, ma la deve anche adattare. La missiologia, infatti, si confronta sempre con i contesti, e con contesti sempre diversi. Oggigiorno si assiste anche ad un processo inverso, perché, in molti casi, la teologia elaborata nei contesti ritorna alla teologia universale arricchendola. I missionari si devono incaricare di incentivare nella riflessione teologica ecclesiale questo ritmo ermeneutico che può far crescere la sinodalità e l’interculturalità della chiesa. Va ricordato, al riguardo, come Papa Francesco abbia individuato nel “formalismo”, nell’“intellettualismo” e nell’“immobilismo i tre principali impedimenti che fanno da ostacolo a questo processo sinodale-missionario. Ostacoli che, purtroppo, continuano ad esserci, sia negli apparati ecclesiali che nelle università pontificie.
L’intervento sarà strutturato su tre capitoletti:
- Trasformazione della missione e trasfor-mazione missionaria della chiesa: la svolta pastorale e regnocentrica.
- Da Ad Gentes ad Inter gentes: la svolta dialogica e interculturale.
- La missione invertita: teologia dello scambio e svolta ermeneutica.
- 1. Trasformazione della missione e trasfor-mazione missionaria della chiesa: la svolta pastorale e regnocentrica.
È noto tutti che “La Chiesa è natura sua missionaria “(cf. Ad gentes 2). Dal momento che prolunga l’incarnazione di Cristo, la missione, infatti, coincide e si identifica con la Chiesa stessa. Intesa come estensione ed attualizzazione dell’annuncio cristiano accompagnerà sempre il cammino ecclesiale fino alla parusia.
I tempi tuttavia cambiano, il mondo e le società cambiano, di conseguenza, anche la missiologia e la figura del missiologo sono destinati a cambiare. È questo il motivo per il quale, come si accennava, è necessario diffondere il messaggio che la missione è oggi una realtà molto diversa rispetto al passato: non è missionario soltanto uno “che parte”, perché è altrettanto missionario anche “chi resta”. In una società scristianizzata, interculturale e multi religiosa, nel quale molti cattolici abbandonano la loro fede per seguire maestri new age, meditanti buddhisti o confraternite sufi, e in un mondo globalizzato che ha dei ritmi migratori esponenziali, è ovvio che la missiologia debba cambiare, e debba impegnarsi in quella che si potrebbe definire “svolta pastorale”.
È opportuno parlare di “svolte” perché il termine dà l’idea di un’evoluzione dinamica in atto. La prima svolta che è necessario richiamare, però, è la conversione missionario della chiesa in sé stessa. Nelle società attuali, conversione missionaria significa soprattutto rilanciare un’azione pastorale a 360 gradi: l’omiletica, le arti, il giornalismo, i social media, la direzione spirituale e l’approfondimento delle tecniche contemplative, che possono riportare nella chiesa tanti giovani attratti dallo yoga e dalle mistiche dell’Oriente. Fondamentale, poi, è la didattica a scuola, soprattutto l’insegnamento della religione, che è forse il principale terreno di missione contemporaneo.
Svolta pastorale, infatti, significa, in particolare, che la missione deve occuparsi non solo dei “lontani”, ma anche degli “allontanati”. Nella grammatica missiologica contemporanea, il “dove” ha perso rilevanza, perché non si tratta più di andare incontro ai lontani, ma a chiunque sia lontano dalla fede cristiana, ovunque si trova. Il parametro guida dalla missione, quindi, non è più il “dove”, ma, semmai, il “come” e “a chi”.
In un mondo che sta andando verso un’autodistruzione ecologica e persino guerre nucleari, è necessario, però, che il teologo sia attento anche alla storia. Anche in quest’ambito, nessuno, quanto il missiologo, può essere consapevoli dei rivolgimenti storici, perché conosce da vicino la povertà, i disastri perpetuati all’ambiente, le ingiustizie economiche, i drammi che stanno l’immigrazione, le guerre piccole e grandi e la persistente privazione dei basilari diritti umani. Questa necessaria attenzione alla storia, è quella che potrebbe essere definita svolta regnocentrica. Le tragedie che accompagnano il nostro tempo, del resto, non devono lasciare indifferenti nessun cristiano, figuriamoci i missiologi che le vivono direttamente e ne sono coinvolti. Si studia missiologia, in fondo, per diventare dei cristiani universali che siano cittadini del mondo e abbiamo gli strumenti per affrontare le grandi questioni e i grandi cambiamenti della nostra epoca.
- 2. Da Ad Gentes ad Inter gentes: la svolta dialogica e interculturale.
Questa consapevolezza che mette al centro il mondo, nella sua complessità e varietà, e non più il solo Occidente eurocentrico, ha trasformato e deve trasformare la missione, che non è più ad gentes ma è diventata inter gentes. Essa non propone più l’inculturazione ma l’interculturalità.
La valorizzazione delle culture – che è la premessa indispensabile per creare una chiesa autenticamente universale – suppone anche, però, quella che si potrebbe definire “svolta dialogica”. Sebbene, infatti, tra missione e dialogico ci sia una tensione ontologica, è altrettanto vero che oggi non si può essere missionari senza dialogare. Questa propensione non è sempre capita, perché in molti ambiti ecclesiali, permane ancora un centralismo eurocentrico, e in molti teologi sono ancora largamente diffusi il pregiudizio, l’autoreferenzialità e l’ignoranza dell’altro. L’interculturalità, però, è il destino della chiesa. Già Jean Daniélou, sulla scia di una precedente frase di Jules Monchanin, parlava di una chiesa che deve rifrangersi ed esprimersi in tutte le culture. Raimon Panikkar amava invece utilizzava la metafora dei fiumi ricordando il Giordano, il Nilo, il Tevere, che raccontano la chiesa del passato, ed il Gange e del Fiume Azzurro per indicare la chiesa del futuro. Sotto questo aspetto, siamo entrati in una epoca della storia della chiesa del tutto simile a quella della scuola di Alessandria. Se essa saprà aprirsi – come invita a fare anche Fides et ratio 72 – alle civiltà dell’India e della Cina, ma anche dell’Africa – il cristianesimo, le dottrine teologiche e la spiritualità della chiesa si arricchiranno tanto quanto si sono arricchiti al tempo dell’incontro con la grecità.
La missione, che per secoli ha avuto come parametro il “dove”, l’andare “verso”, nell’attuale contesto caratterizzato dalle innovazioni telematiche in un modo divenuto villaggio globalizzato, chiudersi in una particolarità culturalità non ha più senso, ed è anzi una scelta autolesionista. La teologia missionaria deve, ora come non mai, specializzarsi nell’approfondimento dei “contesti”, sia quelli culturali-religiosi che quelli esistenziali. Ogni missionario è chiamato a qualificarsi nel contesto che intende servire. Come si diceva non è più necessario partire, e ciò per due ordini di ragioni: perché quei popoli, quelle culture e quelle religioni sono anche qui; e perché oggi hanno messo radici delle chiese autoctone, e sono quindi chiamati ad essere missionari, in primo luogo, coloro che appartengono per nascita a quella cultura.
Intergentes, pertanto, significa, creare una teologia contestuale efficace. La missiologia, del resto, non è un’altra teologia, bensì una teologia contestuale, cioè una teologia che è entrata in relazione con i contesti, con le varie culture e con i riti ed i testi sacri delle varie religioni. A differenza della teologia che si insegna nelle università romane, dove l’approfondimento dei contesti rimane marginale, per la missiologia i contesti sono essenziali, sono anzi la sua ragion d’essere. La teologia delle nostre università è centripeta, ma oggi la chiesa ha piuttosto bisogno di una teologia centrifuga che sappia guardare al mondo. Quest’ultimo è grande, è complesso, è articolato, e, in ogni caso, il futuro del mondo non è più l’Europa, ma l’Africa e l’Asia.
Non è difficile constatare, che oggi nelle nostre università questo dato di fatto non è tenuto in dovuto conto. Attualmente viene ancora insegnata una teologia difensiva e tradizionalista, quando invece, all’opposto, servirebbe una teologia profetica capace di aprirsi con coraggio alle novità e alle diversità. Non tutti hanno compreso che oggi ha fatto il suo tempo una teologia “ad” (gentes), ovverosia l’idea che la teologia muova da un presunto centro verso popoli e culture de-centrate e totalmente sprovviste di valori fondativi e rivelativi. Pochi hanno capito che, all’opposto, è necessaria una teologia “inter” (gentes), che nasca, cioè, dall’interno, tra e attraverso quelle civiltà, anche in forza di una comparazione dialogica. Non a caso, David Bosch sosteneva che la missione contemporanea dovesse essere caratterizzata, innanzitutto, dal dialogo. Il missiologo sud africano recuperava anche una distinzione proposta da Bernard Lonergan tra cultura classica e cultura empirica, per sottolineare che la teologia missionaria ha oggi bisogno di aprirsi a culture non-classiche. Considerando queste dinamiche, chi oggi si sente chiamata alla missione deve anzi impegnarsi a preservare le culture e le tradizioni. Egli le deve sì illuminare con il Vangelo, ma archiviando quella missione colonialistica ed eurocentrica che, insieme alla Parola di Dio, imponeva schemi di vita e paradigmi di pensiero unicamente occidentali. Pur dovendo rimanere se stessa, infatti, la Chiesa, non si identifica con nessuna cultura particolare perché, semplicemente, abita, attraversa e trasfigura ogni civiltà umana. Ciò è possibile poiché a nessun uomo il Vangelo può apparire estraneo.
È necessario dunque costruire una chiesa universale non contro le culture, ma “attraverso” le culture. Mi piace ricordare, a questo proposito, l’immagine di Monchanin che parlava di una chiesa che ha un nucleo immutabile sempre valido (kern) ed una scorza (schale) che, invece, è sempre mutevole, perché ne esprime il mero rivestimento storico e culturale. È possibile leggere, al riguardo, una frase di questo missionario lionese che conserva ancora oggi valore programmatico – ricordando come, tra l’altro, persino la famosa frase di Nostra Aetate 2 secondo cui la chiesa non rigetta ciò che c’è di vero e santo nelle altre religioni – potrebbe risalire a lui.
Scriveva: «La Chiesa, nei primi venti secoli della sua storia si è foggiata – nella sua struttura esteriore – sulla civiltà occidentale: oggi invece l’esigenza di adottare come rivestimento della Chiesa quello di altre civiltà, implica qualche rinuncia, un ritorno alle origini, una dissociazione dell’essenziale dall’accidentale, e soprattutto una interiorizzazione tramite una intensa vita contemplativa, un primato della mistica sulla liturgia, sulla teologia, sulla filosofia religiosa e sulle istituzioni».
Questa sintesi mi sembra essere un ottimo programma per una chiesa sinodale ed interculturale, anzi per una chiesa diversa. Del resto, lo stesso papa Francesco, citando Congar, ha rimarcato che «Non bisogna fare un’altra Chiesa, bisogna fare una Chiesa diversa».
- La missione invertita: teologia dello scambio
e svolta ermeneutica.
La frase citata di Monchanin è un ottimo esempio anche di teologia dello scambio, che è, oltretutto, un’espressione di suo conio. Si potrebbe introdurre, però, un altro termine: “missione invertita”. L’incontro teologico con le culture, infatti, porta a scoprire nel Vangelo – come scriveva Henri Le Saux – ricchezze insospettate. Occorre pertanto pensare le altre culture e le altre religioni alla luce del cristianesimo, ma anche lo stesso cristianesimo alla luce di quelle antiche civiltà. È questo il ritmo ermeneutico di cui si deve corredare la teologia contemporanea, e non solo quella missionaria, ma quella universale. La teologia contestuale menzionata in precedenza, infatti, non sta solo modellando solo la teologia dei “paesi di missione”, ma sta modellando, più in generale, la chiesa universale, nella misura in cui questo incontro produce una ricaduta ed un ritorno nel pensiero cristiano complessivo.
Una dinamica di questo tipo appare tanto più necessaria perché, dopo venti secoli, il messaggio evangelico è stato “metabolizzato”, essenzialmente, dalla sola cultura greco-romana. Oggi una siffatta limitazione non è più sostenibile, nella misura in cui è divenuto evidente che il mondo e la civiltà non finiscono con la cultura greco-romana e non si possono circoscrivere o ridurre ad essa. Una tale processo di scambio interculturale e di ripensamento dell’identità cristiana, comunque, sarà complesso ed è ancora tutto da compiersi. Va da sé, ad ogni modo, che sarebbero assurdo, in queste prime fasi di impiantazione teologica, il radicalismo e la preoccupazione per l’esattezza dogmatica. Anche perché, al contrario, quello che appare necessaria è una teologia che sappia incontrare l’altro, e sia creativa, permeabile, aperta, profetica, comparativa, immedesimativa, intradialogica e mistica. Occorre, pertanto, prendere le distanze dalla teologia monocromatica, monovisuale e monoculturale che, fino ad oggi, ha accompagnato lo sviluppo occidentale della chiesa. Nell’ottica di questa dinamica inclusiva, da un punto di vista metodologico il ritmo teologico-missionario che deve assumere la chiesa in uscita è quello dell’aufhebung hegeliana, improntato cioè alla conservazione dell’antico trasformandolo e illuminandolo dall’interno. Questo processo non esclude la necessità, in alcuni casi, di liberare la speculazione cristiana dai “lacci” della sola cultura occidentale, per pensare il mistero di Dio attraverso altri linguaggi, altre sensibilità e altre visioni prospettiche. Solo così la missione diverrà efficace, cercando di evitare, però, l’errore di utilizzare un unico modello di missione e di teologia per tutti i contesti, come se tutte le realtà culturali e sociali fossero uguali. Ciascun contesto, infatti, richiede il suo linguaggio, la sua strategia teologico-spirituale e i suoi adeguamenti rituali e dottrinali specifici. Ermeneutica significa appunto ripensare la propria identità attraverso le diversità contestuali. Per troppo tempo, invece, la missiologia ha seguito un intento idealistico improntato alla reductio ad unum. Essa, cioè, ha elaborato una teologia che, nel suo tentativo di romanizzare il mondo, finiva col ridurre l’altro a sé, annullando la ricchezza dell’alterità.
La chiesa in missione, invece, non ha solo qualcosa da dare, ma ha anche qualcosa da prendere, anzi da com-prendere. Come si accennava, però, essa è chiamata non soltanto a com-prendere, ma anche riportare nei contesti occidentali del cristianesimo occidentale la sapienza maturata a contatto con le altre antiche civiltà. Con teologia dello scambio e missione invertita si deve appunto intendere questa dinamica vicendevole e bi-direzionale di arricchimento reciproco.
Nel difendere una missiologia ermeneutica di questo tipo, non ci sono, a ben vedere, impedimenti o problematicità. La teologia inclusivista delle religioni, ha oggi sviluppato una cristo-pneumatologia che riconosce la presenza del Verbo e dello Spirito, sia pure in forma seminale, anche fuori dalla Chiesa. Lo stesso concilio ha affermato che lo Spirito «operava nel mondo prima ancora che Cristo fosse glorificato» (AG 4), sostenendo anche che il Verbo di Dio, prima di farsi carne, era già nel mondo come luce vera che illumina ogni uomo (cf. GS 57).
Richiamando queste precise dinamiche missiologiche, papa Francesco ha voluto sottolineare che l’incontro con la diversità culturale non minaccia l’unità della Chiesa (cf. EG 117), aggiungendo che «una sola cultura non esaurisce il mistero della redenzione di Cristo» (EG 118). Egli ha anche sottolineato che è impossibile pretendere che tutti i popoli di tutti i continenti imitino le modalità adottate dai popoli europei per esprimere la propria fede cristiana (cf. EG 118).
Alla luce dei documenti conciliari e dell’insegnamento di papa Bergoglio, si capisce che oggi, la missiologia, ha essenzialmente il compito di formare una nuova chiesa. Per realizzare un compito così arduo, sarebbero necessarie più facoltà di missiologia, ed invece, assistiamo oggi ad un loro ridimensionamento. A prescindere da questo dato allarmante, è opportuno ribadire, però, come, attraverso una teologia missionaria ermeneutica, le “periferie” ritornino al “centro” della chiesa. Esse determinano quel rinnovamento culturale, teologico e spirituale di cui il cristianesimo ed il mondo occidentale hanno estremo bisogno. Ciò è tanto più necessario perché, come scriveva papa Francesco, il cristianesimo langue a causa del fatto che non ha saputo rinnovarsi ed è vittima dell’immobilismo. Continuando a ragionare su questo tema, si potrebbe aggiungere che l’adattamento e l’ermeneutica posso forse essere rischiosi per l’identità cristiana, ma è altrettanto vero che la chiesa correrebbe un rischio ancor più grave se continuasse a ripetere formule che non dicono più nulla all’uomo secolarizzato della contemporaneità e ancor meno a quello che proviene da altre culture religiose. Del resto, una teologia – senza missione – che non “esce”, rischia di diventare espressione di una visione ecclesiale solipsistica, che non “incontra”, non “affronta” e non “incide”. Essa sarebbe espressione di una Chiesa che rischia l’isolamento perché rimane “non capita” e “non progredisce”.
L’invito sinodale di Francesco all’ut unum sint, non significa, quindi, annullare la ricchezza delle culture. Comunione, cioè, non significa monoculturalità, anche perché non può essere “comunionale” una chiesa monoculturale. Per meglio dire, non può essere partecipativa, e quindi sinodale, una chiesa anti dialogica, discriminativa o divisa gerarchicamente in compartimenti stagni.
Promuovere una chiesa in uscita, infatti, implica necessariamente apertura, capacità di inclusione, superamento dell’unidirezionalità e disponibilità al cambiamento. Implica, volendo usare le parole di Francesco, superare il “si è sempre fatto così”. Da una teologia missionaria in uscita è lecito attendersi, per essere teologicamente precisi, non un’“evoluzione del dogma”, ma uno “sviluppo della dottrina”. È appunto di questo che si deve incaricare la missiologia contemporanea, che vive strutturalmente a contatto col mondo, con le culture e con le religioni. Il compito del missionario, pertanto, è oggi e sempre quello di farsi “vaso comunicante”, e ancor più “catalizzatore”. Il senso della sua vocazione è rendere il Cristo totale ed universale e la chiesa una casa, per tutti i popoli e tutte le culture.
(Professore Incaricato Associato, Facoltà di Missiologia, Centro Studi Interreligiosi della Gregoriana (Responsabile per le religioni dell’Asia)