«Chi è quell’uomo di media corporatura», domandò Giacobbe, «vestito nell’eleganza di questo mondo?». «Babbo, è il tuo figlio Giuseppe», rispose Giuda. Con dolore e con amore guardò a lungo, intensamente, il volto dell’egiziano e non lo riconobbe. Accadde però che gli occhi di Giuseppe, per il lungo guardare, si riempirono di lacrime che gli scorrevano giù per le gote; e quando il nero degli occhi fu tutto molle di pianto, ecco, quelli erano gli occhi di Rachele.
Parole e gesti di fraternità
La prima parola del suo discorso sulla fraternità, Papa Francesco la scrisse la sera del 13 marzo 2013, quando scelse il suo nome. Francesco è molti messaggi assieme, ma è soprattutto un messaggio di fraternità – fratres, fratelli, frati. In questi sette anni di pontificato Francesco ha continuato a scrivere molte altre parole di fraternità: nelle encicliche, nei documenti, nelle catechesi, nelle omelie e nei molti dialoghi. Ma le parole più belle non le ha scritte con la penna; le ha vergate con i suoi gesti, parole incarnate e mute. Come quello del 27 marzo 2020, quando, solo e in silenzio in piazza San Pietro, ci ha donato il suo più bel discorso sulla fraternità.
Non è semplice scrivere un’enciclica sulla fraternità. La prima difficoltà è inscritta dentro la
parola stessa. Fraternità rimanda infatti alla relazione tra fratelli e, quindi, non è parola particolarmente adatta per dire una forma di legame universale che includa maschi e femmine su un piano di pari dignità; una difficoltà che non si riesce a superare neanche iniziando l’Enciclica con una citazione di San Francesco per ricollegarsi idealmente ed esplicitamente al Poverello di Assisi.
L’imperfezione semantica è una delle molte vulnerabilità della fraternità. Anche perché, nonostante l’etimologia richiami il rapporto tra fratelli maschi, quando andiamo a descriverla nelle sue note e quando la vediamo all'opera, ci accorgiamo subito che essa presenta molti tratti propri del talento delle donne. A partire dalla famiglia, dove, se non ci fosse una madre a mediare la ridistribuzione dei beni tra fratelli e sorelle, non sarebbe la fraternità a prevalere a tavola o nei giochi, ma la legge del più forte. Lungo le vie che portano alle nostre Gerico, a chinarsi e a prendersi cura delle vittime ci sono anche, e soprattutto, molte, moltissime donne. Sono magna pars nelle case di riposo, negli ospedali, ai capezzali nelle infinite notti delle agonie, sono lì da millenni a prendersi cura di tutti. Sotto la croce, nell’atto di fraternità più grande, c’erano donne, e furono le donne che andarono a ungere il corpo del Signore il Sabato Santo, donne che continuano a ungere i corpi nei sabati santi della vita. Due sorelle accolsero Gesù a Betania, una vedova ospitò Elia nella sua casa e donò al profeta l’ultimo pugno di farina e l’ultimo goccio d’olio rimastole. Un’altra donna versò olio profumato sui piedi di Gesù, un olio che valeva dieci volte più del prezzo del tradimento dell’economo, che non capì e non capisce questo spreco, e continua a rimproverare l’eccedenza non efficiente della fraternità. E non è da escludere che sia stata una donna a scrivere, o almeno a cantarlo.
mille volte, lo splendido Salmo della fraternità, quando, forse in una sera di Pesah, una madre guardò i suoi figli riuniti felici attorno alla stessa tavola e le fiorì nel cuore quel grande canto:
«Ecco, com’è bello e com’è dolce che i fratelli vivano insieme!» (Sal 133,1). E’ Chiara l’altro nome di Francesco.
La seconda difficoltà si trova dentro la Bibbia. Abele, il primo fratello, è un fratello assassinato da un fratello. Giacobbe ed Esaù lottano, combattono e si separano. Poi Lea e Rachele, le due sorelle rivali, Iefte cacciato via dai suoi fratellastri, la tremenda violenza di Amnon su Tamar, fino alle tristissime parole del fratello del figliol prodigo. Per dirci che la fraternità del sangue, per quanto grande e spesso meravigliosa, non è sufficiente a capire l’umanesimo biblico, il nuovo popolo, l’alleanza, la nuova e diversa fraternità universale. E così, per indicare la sua nuova fraternità sganciata dal sangue, la Bibbia non si accontenta di lodare la fraternità naturale e ne mette in luce l’insufficienza. Anche noi sappiamo che non si resta fratelli e sorelle per tutta la vita se a un certo punto quel legame del sangue e della carne, già grande e bello, non diventa legame nello spirito, e se poi non rinasciamo in questo spirito.
II fondamento biblico
Papa Francesco in Fratelli tutti affida la fondazione biblica del suo discorso quasi esclusivamente alla parabola del buon samaritano del Vangelo di Luca. Una scelta importante e forte, che chiarisce subito che la fraternità di Francesco è fraternità universale centrata sulla vittima. Francesco sceglie di guardare il mondo accanto alle vittime, e da lì lo ama e lo giudica, fin dal suo primo viaggio che volle fare a Lampedusa. Anche a costo di trascurare altre dimensioni fondanti della fraternità, come la reciprocità, che, pur essendo parola gemella – «amatevi gli uni gli altri» -, è (quasi) assente dal testo. Una parabola non parla di fratelli di sangue, non nomina mai la parola « fraternità» per rivelarci la prossimità. «Chi è il mio prossimo?» è la domanda dello scriba che genera uno degli incipit più belli di tutta la letteratura: «Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico…». L’anima di questo racconto sta nel contrasto tra prossimità e vicinanza: chi – tra i passanti per quella strada – si china sulla vittima diventando suo prossimo, il samaritano, è il meno vicino alla vittima, perché non giudeo e appartenente a un popolo scomunicato. II levita e il sacerdote, coloro che in quel mondo erano gli addetti alla cura e all’assistenza, gli erano molto più vicini, eppure passano oltre. Chi si prende cura dell’uomo mezzo morto non lo fa perché suo vicino, ma perché decide di diventare prossimo. Fratelli si nasce, prossimi si diventa scegliendo di esserlo. Scrive Francesco:
Questa parabola è un’icona iIluminante, capace di mettere in evidenza l’opzione di fondo che abbiamo bisogno di compiere per ricostruire questo mondo che ci dà pena. Davanti a tanto dolore, a tante ferite, l’unica via di uscita è essere come il buon samaritano. Ogni altra scelta conduce o dalla parte dei briganti oppure da quella di coloro che passano accanto senza avere compassione del dolore dell’uomo ferito lungo la strada. […] Non c’è più distinzione tra abitante della Giudea e abitante della Samaria, non c’è sacerdote né commerciante; semplicemente ci sono due tipi di persone: quelle che si fanno carico del dolore e quelle che passano a distanza; quelle che si chinano riconoscendo l’uomo caduto e quelle che distolgono lo sguardo e affrettano il passo (nn. 67.70). II prossimo, il fratello e la sorella del Vangelo non sono il vicino. Si tratta di una dimensione essenziale di questa nuova e diversa fraternità. In questo punto decisivo di Fratelli tutti il
Papa trova un alleato (nascosto) nel premio Nobel per l’economia Amartya Sen, indiano, uno dei pensatori contemporanei più influenti e originali. Sen, da laico e rappresentante di una tradizione orientale (induismo), ci ha offerto una lettura di quella parabola molto vicina a quella di Francesco. Per Sen un’idea di giustizia che voglia essere giusta, cioè centrata sui principi fondamentali di equità e di imparzialità, ha bisogno di un’idea di prossimità non legata alla vicinanza geografica, etnica, religiosa, comunitaria. Scrive Sen: II dovere verso i prossimi non è confinato soltanto a coloro che vivono accanto a noi. A stabilire un vincolo tra il samaritano e l’israelita ferito sono gli eventi stessi. Trovandosi in quella situazione, egli ha avuto accesso a una nuova prossimità. Nel nostro mondo sono ben pochi coloro che non possiamo ritenere prossimi a noi. 1
E’ su questa stessa linea che Francesco costruisce l’impianto spirituale ed etico di Fratelli
tutti. Una prima importante implicazione riguarda proprio la dimensione religiosa: In quelli che passano a distanza c’è un particolare che non possiamo ignorare: erano persone religiose. Di più, si dedicavano a dare culto a Dio: un sacerdote e un levita. Questo è degno di speciale nota: indica che il fatto di credere in Dio e di adorarlo non garantisce di vivere come a Dio piace (n. 74).
Non basta essere religiosi per essere fratelli-sorelle nel senso del Vangelo. II mondo è pieno
di gente che, uscendo dalle chiese, dalle sinagoghe, dalle moschee e dai templi non si china sulle vittime e passa oltre. Non sappiamo nulla di quel samaritano tranne la sua nazionalità, e sappiamo ancora meno di quella vittima («un uomo scendeva…»: un uomo, come Giobbe, come ogni vittima). A dirci che la fraternità del Vangelo, e quindi di Francesco, è davvero fraternità universale.
Prendendo a fondamento della sua fraternità questa parabola, Francesco ci indica una fraternità larga, inclusiva, inter-culturale e inter-religiosa, la più ampia possibile. E questo è davvero molto bello.
Due implicazioni dirette sono particolarmente importanti. La prima, molto suggestiva: «I “briganti della strada” hanno di solito come segreti alleati quelli che “passano per la strada guardando dall’altra parte”» (n. 75). La seconda riguarda il rischio del noi, sfida altrettanto centrale in un cristianesimo che troppo spesso si accontenta del caldo della comunità e fugge dal freddo delle strade e delle periferie:
L’amore che è autentico, che aiuta a crescere, e le forme più nobili di amicizia abitano cuori che si lasciano completare. II legame di coppia e di amicizia è orientato ad aprire il cuore attorno a sé, a renderci capaci di uscire da noi stessi fino ad accogliere tutti. I gruppi chiusi e le coppie autoreferenziali, che si costituiscono come un «noi» contrapposto al mondo intero, di solito sono forme idealizzate di egoismo (n. 89).
Consequenze politiche ed economiche
Dopo aver ricordato il rapporto che sussiste tra le tre grandi parole della democrazia moderna: libertà, uguaglianza, e fraternità (cfr. nn. 103.104.105), Francesco entra direttamente in alcuni dei grandi temi della dottrina sociale della Chiesa, del suo pontificato e dell’economia di oggi. II primo riguarda il rapporto tra la proprietà privata e la destinazione 1 A. Sen, L’idea di giustizia, Mondadori, Milano 2010, p. 183.
universale dei beni. La Chiesa ha sempre ricordato, fin dai primi tempi dei Padri, che il diritto
alia proprietà privata dei beni è secondo rispetto a un principio più fondativo, cioè che i beni
che possediamo sono dono. Un principio che affonda le sue radici nell’umanesimo biblico, dove «la terra è di YHWH» e noi siamo solo utilizzatori di una terra che resta sempre promessa e donata. Nel corso della storia dell’Occidente la proprietà privata è cresciuta molto all’orizzonte, fino a essere dichiarata «sacra», mentre la destinazione universale dei beni si è progressivamente eclissata negli ordinamenti giuridici moderni. Importante allora che il Papa, nel riporre al centro il principio di fraternità, rimetta accanto ad esso il principio di destinazione universale dei beni, perché, mentre la proprietà privata è il principio cardine della libertà individuale, la destinazione universale è pietra angolare di un umanesimo della fraternità:
In questa linea ricordo che «la tradizione cristiana non ha mai riconosciuto come assoluto o intoccabile il diritto alia proprietà privata, e ha messo in risalto la funzione sociale di qualunque forma di proprietà privata». II principio dell’uso comune dei beni creati per tutti è il«primo principio di tutto l’ordinamento etico-sociale», è un diritto naturale, originario e prioritario. Tutti gli altri diritti sui beni necessari alia realizzazione integrale delle persone, inclusi quello della proprietà privata e qualunque altro, «non devono quindi intralciare, bensì, al contrario, facilitare la realizzazione», come affermava San Paolo VI (n. 120). Legato a questo ristabilimento della priorità nell’ordine dei principi sui beni, c’è il discorso sugli imprenditori:
L’attività degli imprenditori effettivamente «è una nobile vocazione orientata a produrre ricchezza e a migliorare il mondo per tutti». Dio ci promuove, si aspetta da noi che sviluppiamo le capacita che ci ha dato e ha riempito l’universo di potenzialità. Nei suoi disegni ogni persona è chiamata a promuovere il proprio sviluppo, e questo comprende l’attuazione delle capacita economiche e tecnologiche per far crescere i beni e aumentare la ricchezza. Tuttavia, in ogni caso, queste capacità degli imprenditori, che sono un dono di Dio, dovrebbero essere orientate chiaramente al progresso delle altre persone e al superamento della miseria, specialmente attraverso la creazione di opportunità di lavoro diversificate (n. 123).
Se i beni hanno una destinazione universale come vocazione primitiva e fondamentale, allora
anche i beni dell’impresa, della finanza e quel bene particolare che si chiama talento imprenditoriale hanno una destinazione universale che precede l’uso per il solo benessere individuale. Un’idea che si muove in direzione diversa da quella resa famosa dalla metafora della «mano invisibile» (Adam Smith), secondo la quale l’imprenditore è mosso dall’interesse privato e il benessere generale è lasciato ai meccanismi oggettivi del mercato. Nell’umanesimo della fraternità la mano invisibile è troppo poco; a questa, che pur può avere il suo posto, deve aggiungersi, con un ruolo che la precede, la mano concreta di chi usa beni e risorse intenzionalmente rivolti al bene di tutti e di ciascuno. E l’antica teoria del bene comune (l’espressione ricorre 32 volte nell’Enciclica), rideclinata con linguaggio nuovo. Non è difficile scorgere un’eco francescana in questa risotto lineatura del primato della destinazione universale dei beni. San Francesco era talmente convinto di non essere il padrone dei beni che pur doveva usare per vivere, che chiedeva come unico diritto: nulla possedere e vivere sine proprio. Ma il grande tentativo francescano di distinguere la proprietà dei beni dal loro uso non ebbe successo. Nel 1322 Papa Giovanni XXII stabili l’impossibilità
del solo uso dei beni, e attribuì all’Ordine la proprietà dei beni che usava. L’utopia concreta
dei Francescani non entrò nell’economia dell’Occidente. Ma non è morta, dal momento checontinua a sfidare le nostre economie e i nostri sistemi giuridici. Perché, se oggi non saremo capace di inventare un uso dei beni comuni senza esserne padroni e predatori, finiremo solo per distruggere i beni e il pianeta. Ed è qui che la Fratelli tutti si incontra con la Laudato si’. A Francesco la fraternità inter-umana non basta se non diventa fraternità cosmica: «fratello sole, sorella luna» (LS 92). Tornare alla pietas umana del samaritano non significa dimenticare quella verso la creazione e la terra.
Dall’idea di fraternità fondata sull’etica del samaritano derivano ancora altre conseguenze politiche ed economiche, che toccano temi al centro del dibattito pubblico e della vita delle fasce più deboli della terra. Tutta l’Enciclica è attraversata da uno sguardo che vede soprattutto gli ultimi, i più fragili, i più poveri: da questa prospettiva Francesco guarda il mondo, si mette accanto a Lazzaro, sotto il tavolo del ricco epulone, e da lì osserva e giudica la vita del nostro tempo.
Una di queste conseguenze riguarda un tema carissimo a Papa Francesco: «I nostri sforzi nei
confronti delle persone migranti che arrivano si possono riassumere in quattro verbi: accogliere, proteggere, promuovere e integrare» (n. 129). I migranti vanno accolti sulla base di una visione di mutuo vantaggio, non di elemosina (i migranti hanno sempre portato e portano molti vantaggi, ricorda il Papa), ma prima vanno accolti per il principio di gratuità. Francesco si muove spesso su più livelli, indicando però l’ordine morale tra di essi. E quindi specifica:
Tuttavia, non vorrei ridurre questa impostazione a una qualche forma di utilitarismo. Esiste
la gratuità. E la capacità di fare alcune cose per il solo fatto che di per sé sono buone, senza
sperare di ricavarne alcun risultato, senza aspettarsi immediatamente qualcosa in cambio. Ciò permette di accogliere lo straniero, anche se al momento non porta un beneficio tangibile. Eppure ci sono Paesi che pretendono di accogliere solo gli scienziati e gli investitori. Chi non vive la gratuità fraterna fa della propria esistenza un commercio affannoso, sempre misurando quello che dà e quello che riceve in cambio. Dio, invece, dà gratis, fino al punto che aiuta persino quelli che non sono fedeli, e «fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni» (Mt 5,45) (nn. 139-140). Altro tema dell’Enciclica, classico e nuovo di Francesco, è la distinzione tra popolo, popolare e populismo. Francesco qui è molto critico contro quei leader che si servono del popolo per il proprio successo invece di servire il popolo. Ha parole durissime, che sono tra le più forti e vive del testo, nelle quali non è difficile riconoscere il suo tipico stile letterario:
II disprezzo per i deboli può nascondersi in forme populistiche, che li usano demagogicamente per i loro fini, o in forme liberali al servizio degli interessi economici dei potenti. In entrambi i casi si riscontra la difficoltà a pensare un mondo aperto dove ci sia posto per tutti, che comprenda in sé i più deboli e rispetti le diverse culture (n. 155). E ancora:
Negli ultimi anni l’espressione «populismo» o «populista» ha invaso i mezzi di comunicazione e il linguaggio in generale. Così essa perde il valore che potrebbe possederee diventa una delle polarità della società divisa. Ciò è arrivato al punto di pretendere di classificare tutte le persone, i gruppi, le società e i governi a partire da una divisione
binaria: «populista» o «non populista». Ormai non è possibile che qualcuno si esprima su qualsiasi tema senza che tentino di classificarlo in uno di questi due poli, o per screditarlo ingiustamente o per esaltarlo in maniera esagerata (n. 156). Francesco è molto duro con il populismo perché è un grande amante del popolo e vuole difenderlo dalle manipolazioni ideologiche: I gruppi populisti chiusi deformano la parola «popolo», poiché in realtà ciò di cui parlano non è un vero popolo. Infatti, la categoria di «popolo» è aperta. Un popolo vivo, dinamico e con un futuro è quello che rimane costantemente aperto a nuove sintesi assumendo in sé ciò che è diverso (n. 160).
Tornando al buon samaritano, sottolinea poi un aspetto secondario e in genere trascurato della
parabola: «Anche il buon samaritano ha avuto bisogno che ci fosse una locanda che gli permettesse di risolvere quello che lui da solo in quel momento non era in condizione di assicurare» (n. 165). L’alleanza tra il samaritano e un albergatore, un commerciante, l’ingresso nella parabola di un contratto e di due denari introducono l’economia dentro la fraternità evangelica. Anche un anonimo albergatore sale con i suoi due denari sull’arca della fraternità, e con lui ogni imprenditore e operatore economico che, facendo bene e con onestà il proprio mestiere, può diventare luogo di cura delle vittime, amico del samaritano e della sua prossimità. Svolgere il mestiere di imprenditore non impedisce di svolgere il mestiere di essere umano.
In Fratelli tutti c’è anche spazio per alcune riflessioni sul mercato: La fragilità dei sistemi mondiali di fronte alla pandemia ha evidenziato che non tutto si risolve con la libertà di mercato e che, oltre a riabilitare una politica sana non sottomessa al dettato della finanza, «dobbiamo rimettere la dignità umana al centro e su quel pilastro vanno costruite le strutture sociali alternative di cui abbiamo bisogno» (n. 168). La pandemia sta infatti dicendo che, laddove la sanità è stata gestita come un ordinario bene privato, la popolazione e gli Stati hanno sofferto molto, soprattutto i poveri. Stiamo imparando, con costi molti elevati, che ogni essere umano è un bene comune, e la sua salute e la sua malattia hanno effetti su tutti gli altri troppo rilevanti per poter pesare di affidarle principalmente al mercato. Se un povero che si ammala non è curato bene, la sua malattia diventa un male comune, che ci fa capire immediatamente che cosa sia il bene comune. C’è un’urgente esigenza di ripensare il rapporto tra mercato, comunità, beni comuni e beni pubblici.
«Mai più la guerra!»
Questa Enciclica segna anche la fine della dottrina della «guerra giusta». Da anni si attendeva
una parola chiara e forte su questo pezzo di dottrina cristiana che strideva troppo con le parole sulla pace di Francesco e di molti suoi predecessori. E finalmente è arrivata: «Oggi è molto difficile sostenere i criteri razionali maturati in altri secoli per parlare di una possibile “guerra giusta”. Mai più la guerra!» (n. 258). E in nota si aggiunge: «Sant’Agostino [… ] elaborò un’idea della “guerra giusta” che oggi ormai non sosteniamo». Anche sulla pena di morte Francesco non poteva avere parole più chiare e forti di quelle che leggiamo qui:
San Giovanni Paolo II ha dichiarato in maniera chiara e ferma che essa è inadeguata sul piano morale e non è più necessaria sul piano penale. Non è possibile pensare a fare passi indietro rispetto a questa posizione. Oggi affermiamo con chiarezza che «la pena di morte è inammissibile» e la Chiesa si impegna con determinazione a proporre che sia abolita in tutto il mondo (n. 263).
Se Dio impedì, con il suo segno, che Caino, il primo fratello e il primo fratricida, fosse a sua
volta ucciso in quanto assassino, allora il «nessuno tocchi Caino» è un segno proprio e distintivo di ogni civiltà della fraternità. II Corano lo dice con una forza ancora maggiore. Nella Bibbia i due fratelli non parlano; il Corano dà invece la parola ad Abele. Forse guardando il fratello negli occhi, Abele capisce che Caino lo sta per colpire e gli dice: «Anche se userai la tua mano per uccidermi, io non userò la mia mano per uccidere te» (II sacro Corano, al-Ma’idah: Sura 5,28). Abele, il primo dei non-violenti, colui che muore per non diventare assassino. La fraternità è mite come Abele, e come i tanti mansueti che hanno preferito lasciarsi uccidere pur di non diventare fratricidi, perché, se il primo omicidio fu un fratricidio, ogni omicidio è un fratricidio.
L’Enciclica si conclude con dei credits che Francesco riconosce ad alcuni grandi uomini (forse, anche qui, ci stava bene almeno una donna): In questo spazio di riflessione sulla fraternità universale, mi sono sentito motivato specialmente da San Francesco d’Assisi, e anche da altri fratelli che non sono cattolici: Martin Luther King, Desmond Tutu, il Mahatma Gandhi e molti altri. Ma voglio concludere ricordando un’altra persona di profonda fede, la quale, a partire dalla sua intensa esperienza di Dio, ha compiuto un cammino di trasformazione fino a sentirsi fratello di tutti. Mi riferisco al Beato Charles de Foucauld (n. 286). Ogni discorso sulla fraternità è plurale, ogni canto fraterno è sinfonia.
Custodi
Concludiamo con la Bibbia. Le pagine bibliche più belle sulla fraternità, che ci dicono come
la fraternità naturale del sangue possa morire e risorgere fraternità dello spirito, sono quelle che la Genesi ha affidato al ciclo di Giuseppe. Giuseppe non è ricordato nella Bibbia come un patriarca, perché Giuseppe è soprattutto il fratello, colui che ci ha insegnato che cosa sia la fraternità biblica: «lo sono Giuseppe! È ancora vivo mio padre? […] lo sono Giuseppe, il vostro fratello, quello che voi avete venduto sulla via verso l’Egitto» (Gen 45,3-4). È questo il culmine della storia di Giuseppe, venduto dai suoi fratelli maggiori quando era ancora un ragazzo e poi divenuto, da adulto, la loro salvezza. Fino al momento dell’incontro in Egitto e fino a quando non si fa riconoscere dai fratelli, Giuseppe è solo il fratello invidiato per la sua veste bellissima dalle
maniche lunghe e per i suoi sogni. Era fratello perché figlio dello stesso padre. Ora ridiventa fratello in una nuova fraternità, perché ha generato nel dolore-amore un nuovo legame. La fraternità del «sangue e basta» non ha mai salvato nessuno, anzi spesso diventa causa di ingiustizie, privilegi, discriminazioni, violenze. I fratelli e le sorelle restano fratelli e sorelle fino alla fine della vita se un giorno diventano anche amici, madri, padri gli uni degli altri. La fraternità è aurora, è «rugiada» (Sal 133,3), ma quel sole non mantiene a mezzo di tutta lo splendore dell’alba se il sangue non diventa spirito, e se poi non rinasciamo nuove creature in questo spirito.
Nel pianto di Giuseppe, accanto alla parola fratello troviamo anche la parola padre: «È ancora vivo mio padre?». Fraternità e paternità. Nell’intero ciclo di Giuseppe, che è una grande narrativa sulla fraternità, il padre Giacobbe e la madre Rachele non sono affatto assenti. Sono una presenza costante, co-protagonisti essenziali di quella storia, anche se ritratti sullo sfondo per lasciar spazio allo svolgimento della metamorfosi della fraternità tra i figli. Quella biblica, a differenza della fraternità della Rivoluzione francese, non è una fraternità senza o contro la paternità. La paternità-maternità dice storia e destino comune, è radice e corda (fides) che ci lega gli uni agli altri attraverso il tempo. Nella fraternità biblica lo spazio (che diventa luogo) non è nemico del tempo, ma insieme essi legano passato a futuro. A differenza dei grandi miti greci sulla paternità (negata in Edipo, attesa in Telemaco), la paternità biblica è al servizio della fraternità, perché è memoria dell’alleanza e caparra dell’avveramento della promessa. Se la Bibbia ha voluta porre al cuore della storia della salvezza la fraternità morta e risorta di Giuseppe e i suoi fratelli, allora il miracolo di un fratricidio che si trasforma in nuova fraternità è possibile, fa parte del repertorio dell’umano. E può ripetersi ovunque e ogni giorno, anche oggi. Infine, un’altra grande immagine biblica è quella della sentinella: «Figlio dell’uomo, ti ho posto come sentinella per la casa d’Israele. Quando sentirai dalla mia bocca una parola, tu dovrai avvertirli da parte mia» (Ez 3,17). Geremia, Amos, Osea, Ezechiele si sentono chiamati a essere sentinella. Isaia (cap. 21) per dire sentinella usa la parola shomer: sentinella come custode. Shomer fu la parola usata da Caino quando, non rispondendo alia domanda di Dio («Dov’è tuo fratello?»), si dichiarò non custode (shomer) di Abele. Lo aveva ucciso perché non era stato custode (cfr. Gen 4). La custodia reciproca è un nome della fraternità. Dove non c’è mutua custodia arriva, prima o poi, il fratricidio. Fratelli tutti ce lo ripete in molti modi: nei rapporti umani non esiste l’indifferenza etica; se non scegliamo la fraternità scegliamo la morte. II profeta è l’anti-Caino, è colui che custodisce Abele, che allarga il territorio della fraternità per farlo coincidere con l’intera città. E poi, fedele nel posto di vedetta, guarda oltre la sua città, stende lo sguardo verso l’orizzonte della terra fraterna di tutte le donne e tutti gli uomini. Una terra che desidera, che chiama. Papa Francesco è amico e fratello dei profeti biblici, e insieme a loro continua a custodire Abele, per cercare di salvarlo, ogni giorno, dal gesto di Caino, suo fratello.