Inizio con un piccolo racconto:
Un maestro di calligrafia scuote la testa di fronte all’esercitazione dell’alunno e gli chiede: “Hai mai visto qualcosa di più brutto?” L’alunno, mortificato e imbarazzato, risponde timidamente: “Si”. E tira fuori da sotto il banco un fascio di prove fatte precedentemente, una più brutta dell’altra.
Per questa riflessione, che ora condivido con voi, ho fatto diversi tentativi di strutturazione del pensiero e di organizzazione del materiale, ma una prova risultava sempre meno soddisfacente dell’altra, perché il tema sembra semplice, ma non lo è. “Come Gesù forma i suoi discepoli ad essere missionari?” È una domanda impegnativa a cui riusciamo soltanto a dare qualche risposta parziale, cercando di comprendere nel miglior modo possibile ciò che ci lasciano intravedere i Vangeli. Gesù non ha elaborato un progetto formativo o una ratio formationis, definendo con chiarezza la finalità, i percorsi, i metodi, i criteri della sua azione formativa. Eppure una progettazione non manca. Egli stesso insegna ai discepoli a «sedersi a calcolare», a prevedere e provvedere il necessario, prima di accingersi a costruire una torre (cf Lc 14,28-39). Non manca nemmeno un metodo specifico, o uno stile pedagogico. Fin dall’inizio della sua predicazione, la gente si stupisce e riconosce qualcosa di peculiare in questo maestro: «Egli insegna con autorità e non come gli scribi» (Mc 1,21).
Dunque, quali sono queste caratteristiche? Le cerchiamo nei Vangeli, senza la certezza di aver capito tutto bene, senza la pretesa di completezza o di precisione, ma con umiltà, con la disposizione a lasciarci sorprendere e con un po’ di timore di rovinarne la bellezza.
La mia proposta di riflessione si struttura in tre punti. Il primo è una visione panoramica, che condenso in tre verbi.
1. Venire – rimanere – andare
Sono tre verbi paradigmatici. Il “venire” e l’”andare”, ricorrenti piuttosto nei sinottici, hanno il senso del movimento, mentre il “rimanere”, tipicamente giovanneo, sottolinea l’interiorità. Le due dimensioni, tuttavia, non si escludono, ma interagiscono tra di loro. Venire-rimanere-andare: sembrano indicare un processo, una serie di momenti che si susseguono, invece sono elementi spesso compenetranti l’uno nell’altro.
1.1 Venire
La persona di Gesù doveva esercitare un forte fascino sui suoi contemporanei. Diverse volte i Vangeli parlano di grandi folle che “vanno dietro a Gesù”. Molti vedono in Lui un profeta inviato da Dio, altri aspettano da Lui una guarigione o un insegnamento, altri ancora sono semplicemente curiosi. Si tratta, comunque, nella maggioranza dei casi, di un “andare dietro a lui” fisico, occasionale, funzionale.
A differenza delle folle, i primi discepoli seguono Gesù dopo una chiamata, il più delle volte inaspettata. Questo appare chiaramente nelle scene di vocazione. Simone e Andrea erano alla pesca, quando Gesù, passando, disse loro: «Venite dietro a me» (Mc 1,17); subito dopo, chiamò anche Giacomo e Giovanni, ed essi «lo seguirono» (1,20). Nello stesso modo, un po’ più tardi, egli chiamò Levi, seduto al banco dove si pagavano le tasse: «Gesù disse: “Seguimi”. Egli, alzatosi, lo seguì» (Mc 2,14).
Sono racconti carichi di dinamismo. Gesù «passando… vide» (Mc 1,16). Il verbo passare segna un movimento, non solo quello dell’entrata in scena di Gesù, presso il lago della Galilea, ma soprattutto quello più significativo: il suo mettersi in cammino lungo le strade dell’uomo, il suo apparire nei luoghi dell’esistenza quotidiana, il suo inserirsi nella concretezza della storia umana, il suo impatto con le singole vite umane, il suo porsi a livello dell’uomo per incontrarlo sul suo terreno. È il mistero dell’incarnazione che culmina nel passaggio della Pasqua.
Nel passare, nel camminare di Gesù in mezzo agli uomini e alle donne si realizza il piano divino di salvezza. All’inizio della missione Gesù si presenta solo davanti a Giovanni per ricevere il battesimo, ma subito egli chiama i primi discepoli ad andare dietro a lui: egli vuol coinvolgere altri nel suo cammino; così, a mano a mano che procede, egli attira dietro a sé un numero sempre maggiore di uomini e donne che, con il cammino, condividono il suo ideale, la sua missione, il suo stile di vita, il suo destino.
Al venire dietro del discepolo corrisponde l’andare davanti del maestro. Gesù, infatti, precede i suoi discepoli, indicando loro la meta e diventando per loro «la via» per raggiungerla. Verso il termine del cammino terreno «Gesù proseguì avanti agli altri salendo verso Gerusalemme» (Lc 19,28), dove si realizza l’evento culmine della sua missione. Ma la croce e la morte non segnano il punto finale di questo cammino; egli, infatti, promette alla vigilia della sua morte: «Dopo la mia risurrezione, vi precederò in Galilea» (Mc 14,28). E nel discorso d’addio egli assicura ai suoi discepoli: «Io vado a prepararvi un posto; quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, ritornerò e vi prenderò con me, perché siate anche voi dove sono io» (Gv 14,2-3). L’andare dietro a Gesù continua oltre il cammino in questo mondo e diventa senza confini, oltre il tempo e lo spazio. Questo pensiero è espresso anche nell’Apocalisse, in cui l’autore descrive i 144.000 santi che «seguono l’agnello dovunque vada» (Ap 14,4).
Dalla parte dei discepoli, l’accogliere la chiamata e seguire Gesù significa mettersi in movimento verso una nuova direzione della loro esistenza, in cui il punto di riferimento è la persona stessa di Gesù. Avranno, però, un lungo cammino da fare per scoprire più in profondità chi è questo Gesù e quale cambiamento comporta nella loro vita il mettersi in cammino dietro a lui.
Gesù sa bene che le sue parole e i suoi gesti trascendono le capacità reali di comprensione dei discepoli, sa che fanno fatica ad «andare dietro» a lui. Egli, quindi, li accompagna con pazienza e saggezza pedagogica, anche se qualche volta non si esime da domande di rimprovero come queste: «Non intendete e non capite ancora? Avete il cuore indurito?» (Mc 8,17-18). Di fatto, tutto il viaggio verso Gerusalemme, fino alla croce e alla risurrezione, è per i discepoli un lungo processo di formazione intensa e mirata.
1.2 Rimanere
Il venire traccia, in un primo momento, un movimento esteriore, ma si trasforma presto in un cammino spirituale. Giovanni lo illustra con chiarezza. Egli, fin dal racconto della vocazione dei primi discepoli (Gv 1,35-51), introduce la categoria del “rimanere”, un verbo che ricorre nel suo Vangelo per ben 67 volte, 3 volte solo in questo episodio.
All’’inizio della scena c’è Giovanni Battista, che proclama di fronte a Gesù: «Ecco l’agnello di Dio» (v.36). Con umiltà e discrezione egli funge come un dito indicatore, un ponte per favorire gli altri ad andare da Gesù. Due dei suoi discepoli, dietro la sua indicazione, seguono Gesù. E Gesù, avvertendo i passi timidi dietro di sé, «si voltò» e chiese: «Che cosa cerate?» Essi reagirono con una domanda: «Maestro, dove dimori? (nel testo greco: dove rimani?)». Gesù rispose: «Venite e vedrete». Andarono e videro dove egli dimorava e quel giorno rimasero con lui.
C’è qui una serie di movimenti, che sono a prima vista, esterni – seguire, voltarsi, andare, vedere – ma che esprimono un movimento interno ben più intenso e profondo. C’è anche un intreccio di parole e di sguardi, di cercare e trovare, di domande e risposte, di pensieri e convinzioni, di invito e promessa, di attrazione e coinvolgimento. Alla fine tutto culmina nel “rimanere”, che diventa per i discepoli il punto di gravitazione e la fonte inesauribile di risorse per la loro vita e la loro missione.
«Maestro, dove dimori (rimani)?» e «rimasero presso di lui»: si nota un interessante rovesciamento di prospettiva: dal luogo dove rimane Gesù al luogo dove devono rimanere i discepoli. Essi vogliono informarsi sulla dimora di Gesù, mentre Gesù diventa la loro dimora.
“Rimanere in me”
Il “Rimanere” è precisato da un “in me” nella richiesta di Gesù, soprattutto nel suo discorso d’addio. Il “rimanere” ha una valenza doppia: indica la permanenza in un luogo e anche una stabile durata temporale. Ciò che Gesù chiede e, quasi, esige dai suoi, è un rapporto che include le dimensioni spazio-temporali, un rapporto intenso e profondo, saldo e dinamico. Rimanendo in Gesù il discepolo arriva a sintonizzarsi con lui giungendo gradualmente a quello che dice Paolo: «avere il pensiero di Cristo» (1Cor 2,26), «avere gli stessi sentimenti che furono in Cristo» (Fil 2,5).
Gesù usa l’immagine della vite e dei tralci per descrivere questa profonda comunione: «Chi rimane in me e io in lui, fa molto frutto» (Gv 15,4-5). Rimanendo costante-mente in lui e lasciandosi penetrare sempre più intimamente e profondamente da lui, il discepolo rende la sua vita feconda. Il “portare frutto” implica anche una fecondità missionaria. Questa fecondità, conseguenza naturale dell’inabitazione reciproca, è a sua volta una caratteristica che contraddistingue il vero discepolo di Gesù: «In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli» (Gv 15,8). Il vero discepolo di Gesù non è mai sterile.
“Rimanere nella mia parola”
Come può «rimanere presso Gesù» chi non l’ha conosciuto durante la sua vita terrena? Rimanere in lui significa rimanere nella sua Parola, quella pronunciata durante la sua esistenza storica, tramandata dai testimoni e fissata poi nella Scrittura. Nella Parola egli si fa presente oltre il limite del tempo e dello spazio. Il credere, cioè l’accoglienza e l’adesione iniziali, è fondamentale, ma Gesù esige dai suoi discepoli un grado più maturo di fede, alimentata e vivificata continuamente dalla Parola. Egli dice espressamente: «Se rimanete fedeli alla mia parola, sarete davvero miei discepoli; e conoscerete la verità e la verità vi farà liberi» (Gv 8,31-32). «Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quel che volete e vi sarà dato» (Gv 15,7).
Questo pensiero viene espresso più volte anche in forma negativa. Quando la folla mormora dopo il suo «discorso duro» sul pane di vita, Gesù chiede ai discepoli: «Forse anche voi volete andarvene?» (Gv 6,67). Colui che non rimane nella sua Parola è meglio che se ne vada, cioè non lo segua per nulla. In Gv 5,37-41 Gesù rimprovera ai giudei di non aver mai ascoltato la voce del Padre né interiorizzato la sua Parola, e la ragione profonda è questa: «Voi non avete la sua parola che dimora in voi, perché non credete a colui che egli ha mandato. […] io vi conosco e so che non avete in voi l’amore di Dio».
“Rimanete nel mio amore”
Chiamato alla sequela di Gesù, il discepolo si lascia amare con gratitudine e semplicità, è coinvolto misteriosamente nella comunione d’amore esistente tra il Padre e il Figlio. È Gesù stesso che lo garantisce: «Come il Padre ha amato me, così anch’io ho amato voi. Rimanete nel mio amore» (Gv 15,9).
L’amore plasma e struttura la persona rendendola sempre più protesa verso l’altro. Rimanendo nell’amore di Dio il discepolo acquista una nuova visione della realtà, una nuova fonte di desideri. Egli desidera quello che vuole Dio. È in questo senso che Gesù dice: «Se osserverete i miei comandamenti rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore. […] Voi siete miei amici, se farete ciò che io vi comando» (Gv 15,10-12). Non si tratta dell’osservanza dei comandamenti imposti dall’esterno, ma è un affiatamento con la sfera di Dio, una sintonia in Dio, che fa sperimentare dentro di sé quella passione, quell’impulso missionario di cui Paolo dice: «l’amore di Cristo ci spinge» (2 Cor 5,14)
1.3 Andare
Il “seguire” Gesù e il “rimanere” in lui rendono i discepoli simili al Maestro. Il cuore allora si dilata nell’amore universale, gli occhi si aprono ad orizzonti più vasti e la mente assume la logica divina di gratuità generosa. La sequela sfocia nella missione, per cui il mandato missionario del Risorto – «Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli …» (Mt 28,19-20) nella versione di Matteo, o «… di me sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino ai confini della terra» (At 1,8) nel racconto di Luca – non risulta come qualcosa di nuovo, qualcosa di aggiunto alla vocazione dei discepoli.
Mentre nel primo incontro con Gesù i discepoli udivano dal Maestro l’invito, «venite dietro di me» (Mt 4,19), ora questo stesso maestro, nell’ultimo incontro prima di tornare al Padre, dice ai discepoli: «Andate dunque e fate discepole tutte le nazioni» (Mt 28,19). Commenta Benedetto XVI: «Lo stare con Lui [Gesù] e l’essere inviati sembrano, a prima vista, escludersi a vicenda, ma evidentemente vanno insieme. I Dodici devono imparare a stare con Lui in un modo che permetta loro di essere con Lui, anche se vanno sino ai confini della terra. L’essere con Gesù porta per natura in sé la dinamica della missione, poiché l’intero essere di Gesù è, in effetti, missione» (Benedetto XVI, Gesù di Nazaret, 204).
La sequela di Cristo si realizza non solo con il “venire” da Gesù, ma anche con l’“andare” agli altri, cioè col prolungare la stessa missione di Gesù nel tempo e nello spazio. Lo scopo della sequela non è solo quello di «diventare discepoli di Gesù», ma è quello di «far diventare discepoli» altri, anzi «tutti», tutta l’umanità senza distinzione di etnia, religione, stato sociale, sesso; perché a tutti è dato di divenire cittadini del regno di Dio.
È interessante vedere nel racconto giovanneo della chiamata dei primi discepoli una catena di attrazione e di testimonianza. Seguendo l’indicazione di Giovanni Battista, due dei suoi discepoli vanno dietro a Gesù, dopo essere rimasti con Gesù, uno dei due, Andrea, corre a chiamare suo fratello Pietro, dicendogli: «Abbiamo trovato il Messia». Lo stesso fa Filippo con l’amico Natanaele. Il “rimanere” con Gesù non è uno standby statico, non è come la solita conclusione delle storielle a lieto fine, “rimasero insieme e vissero felici e contenti”, ma risulta uno slancio verso gli altri, una corsa al fratello.
Anche per Maria l’incontro con Dio sfocia in una corsa. «Maria si alzò e andò in fretta verso la regione montuosa» (Lc 1,39). Ella parte in fretta sfidando fatiche, disagi e pericoli. Intraprende un viaggio di circa 150 km su strade tortuose tra i monti. Il suo passo è agile e gioioso, perché ciò che riempie il suo cuore dà ali ai suoi piedi. È un viaggio di amicizia e di servizio, un viaggio missionario: ella porta ad altri la presenza di Dio entrato nel mondo, anche se ancora in una forma nascosta. L’immagine suggestiva di Maria in cammino evoca il celebre testo profetico: «Come sono belli sui monti i piedi del messaggero di un lieto annuncio…» (Is 52,7).
Dio ama servirsi della collaborazione delle persone per comunicare la sua presenza, la sua parola e i suoi doni. Il suo messaggio di salvezza corre con i passi umani, corre di bocca in bocca, di vita in vita, da cuore a cuore, creando una comunità di credenti. La fede convinta diventa un bene che si comunica. Così scrive Giovanni indicando la “metodologia” missionaria che piace a Dio: «quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunciamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi» (1Gv 1,3). Ancor oggi la sequela di Cristo procede come un fuoco che ne accende un altro per divampare insieme. «La fede si rafforza donandola!», dice Giovanni Paolo II (Redemptoris missio 2); «L’amore cresce attraverso l’amore», gli fa eco Benedetto XVI (Deus caritas est 18). E Francesco: «Ogni cristiano è missionario nella misura in cui si è incontrato con l’amore di Dio in Cristo Gesù; non diciamo più che siamo “discepoli” e “missionari”, ma che siamo sempre “discepoli-missionari”». (Evangelii Gaudium 120).
2. Agricoltore – pescatore – pastore
Sono le metafore usate da Gesù per parlare della missione dei suoi discepoli. Sono anche i lavori, o i mestieri, più comuni della Palestina del suo tempo: l’agricoltura nella pianura, il pascolo nella zona montagnosa, la pesca intorno al lago di Galilea.
2.1 L’agricoltore
Nelle sue parabole Gesù parla del seminatore, dei lavoratori nelle vigne, dell’agricoltore che intercede presso il padrone perché lascia ancora un anno al fico sterile, dell’abbondanza della messe e del numero esiguo degli operai. «Io sono la vite vera e il Padre mio è l’agricoltore» (Gv 15,1). Egli applica l’immagine dell’agricoltore persino al Padre. È bello pensare a un Dio, non seduto con maestà sul trono, ma sollecito e attento, chino sulla sua vite. Il contadino lavora molto, ma sa anche aspettare e rispettare i tempi della terra e il ritmo della crescita della pianta. Deve lottare, soprattutto nella terra arida della Palestina, contro un deserto che avanza, ma ha fiducia nella forza del seme che cresce da solo e nella vita che germoglia nel buio e nel silenzio; nutre la speranza che il granello di senapa diventi un albero rigoglioso e che il seme caduto su un terreno buono fruttifichi cento volte tanto.
Seguendo Gesù, anche altri autori del Nuovo Testamento applicano, con perspicacia, la metafora dell’agricoltore alla vita e alla missione dei cristiani. Molto conosciuto e bello è, per esempio, il brano della Lettera di Giacomo: «Guardate l’agricoltore: egli aspetta con costanza il prezioso frutto della terra finché abbia ricevuto le prime e le ultime piogge. Siate costanti anche voi, rinfrancate i vostri cuori, perché la venuta del Signore è vicina» (Gc 5,7-8).
2.2 Il pescatore
«Venite dietro a me, vi farò diventare pescatori di uomini» (Mc 1,17). Pescatori, ha detto Gesù. Non cacciatori. Non inseguitori. Anche il pescatore conosce l’attesa, la pazienza, la speranza, la fiducia. È un uomo aperto alle sorprese, disposto all’avventura, al rischio, alla novità. Egli getta la rete nell’immenso mare, immerge i suoi desideri nella profondità ignota e poi attende con fiducia. Non indaga come facciano i pesci ad entrare nella rete, non li prende di mira, non corre loro dietro, non li costringe ad entrare, non crea trappole; soltanto getta la rete, la tiene aperta e attende. Non è un’attesa noiosa, passiva o vuota la sua, anzi! È carica di dinamismo emotivo e di mille piccole attenzioni.
Chi dorme non piglia pesci. Il pescatore non dorme, ma veglia e vigila su tutto: egli bada all’equilibrio e all’andamento giusto della barca, percepisce il giro della corrente, coglie la direzione e la forza del vento, legge le mutazioni del tempo, scruta una quantità di segni che ai più non dicono niente.
Il pescatore non resta sulla terra ferma, ma sta su una barca che galleggia su un mare non sempre tranquillo. Deve saper accordarsi con il vento, con l’aria, con le onde; deve mettere in conto la tempesta e tutti gli imprevisti possibili. Egli è un essere fragile e piccolo, esposto tra due immensità infinite: il cielo e il mare. Più lontano si spinge dalla sponda più cresce l’insicurezza. Ogni partenza è un rischio, ogni ritorno una grazia.
Con la rete immersa nel mare il pescatore ascolta attentamente il silenzio per scorgervi ogni lieve sussurro, ogni impercettibile movimento dell’acqua, come colui che sta con l’orecchio teso, vicino alla porta, per sentire i passi dell’amico ed essere pronto ad aprirgli quando bussa. Tutti sono benvenuti, pesci grandi e piccoli, rari o comuni.
Il momento di tirare su la rete è sempre emozionante. Alle volte la rete esce dall’acqua piena, pesante, gonfia di ogni specie di pesci luccicanti. Se le braccia di uno non bastano, ci sono i fratelli, i colleghi, i vicini, gli amici. Tutti sono pronti a dare una mano, a rallegrarsi dell’abbondanza. La gioia di uno è la gioia di tutti. La fortuna è contagiosa. Alle volte, però, dopo una lunga attesa, dopo aver faticato e sudato tanto, la rete sale leggera, emerge come un vecchio straccio, bagnato e consumato. Delusione? Tristezza? No! Il pescatore non si scoraggia e non si arrende facilmente: egli sa riempire il vuoto della rete con un supplemento di speranza. Domani la getterà di nuovo, forse più lontano, più in profondità. Domani sarà un nuovo giorno, un nuovo stupore!
A Gesù piace tanto il lavoro del pescatore da assumerlo a immagine del regno dei cieli. Ai suoi primi discepoli che erano pescatori Gesù chiede di cambiare non il lavoro, ma solo i destinatari: con la stessa arte, anziché pesci, pescheranno uomini.
Un giorno, richiesto di pagare la moneta di tributo per il tempio, Gesù manda Pietro a prenderla dalla bocca di un pesce (cf Mt 17,24-27). Così questi suoi simpatici amici guizzanti diventano il suo portafoglio. Una preziosa lezione per noi: per diventare suoi testimoni e missionari bisogna saper scoprire la moneta d’argento nascosta in ogni pesce.
2.3 Il pastore
Visto come qualcuno che vive con e per il gregge il pastore è simbolo di dedizione. L’immagine del pastore attraversa l’intera Scrittura, dalla Genesi all’Apocalisse. Israele l’applica a Dio, il quale, come un buon pastore, vigile, attento e premuroso, si prende cura del popolo con amore, lo guida, lo nutre, lo difende, si fa compagno di cammino.
Nel NT il pastore è soprattutto Gesù Cristo. «Io sono il buon pastore» (Gv 10,11-14) è una delle autoaffermazioni esplicite di Gesù. Egli conosce per nome, cioè intimamente, le sue pecore, le difende dai pastori falsi e malvagi, le guida a pascoli fertili e le protegge, diventando lui stesso porta di sicurezza; va a cercare le pecore che ancora non lo conoscono, si mette in moto per ritrovare le pecore che si perdono, fosse anche una sola, e arriva persino a dire: “Do la mia vita per le pecore” (Gv 10,15). E lo ha fatto. Con la morte in croce.
I discepoli partecipano alla missione pastorale di Gesù. Egli stesso affida loro questa missione. Significativo è il brano Gv 21, 15-17 in cui Gesù Risorto, solennemente, per tre volte, affida il suo gregge a Pietro – «pasci i miei agnelli/le mie pecorelle» – dopo aver chiesto e ottenuto per tre volte la sua confessione d’amore. C’è una circolazione d’amore. Chi ama Gesù, condivide il suo amore al gregge. Il gregge è prezioso per Gesù, per questo Egli lo affida solo a chi ha l’amore.
«I pastori devono avere l’odore delle pecore» (Evangelii Gaudium 24): è un geniale aforismo inventato da Papa Francesco. È immediatamente comprensibile, per cui ogni commento o spiegazione ne rovinerebbe l’incisività. Analogamente possiamo dire che ogni pescatore deve avere l’odore dei pesci e ogni contadino deve avere lo sporco della terra. Questo è un principio non marginale nell’insegnamento di Gesù sulla missione.
3. “C’erano Pietro e Giovanni, Giacomo e Andrea”
Gesù forma i suoi discepoli non con lezioni private, individuali, ma in gruppo. E li manda in missione a due a due. Il senso comunitario, ecclesiale, della missione è chiaro, e la capacità relazionale è una dimensione essenziale nella formazione missionaria impartita da Gesù.
Chi sono i discepoli della comunità scelta e costituita da Gesù stesso? Gli evangelisti riportano i loro nomi (cf Mc 3,16-19; Mt 10,2-4; Lc 6,13-16; At 1,13), senza soddisfare le nostre curiosità sulla loro personalità, sul loro cammino di crescita, sulle loro relazioni all’interno della comunità, ecc. Non abbiamo dati anagrafici o biografici sufficienti per ricostruire la fisionomia dei singoli apostoli, ma da quel poco che sappiamo possiamo constatare che Gesù ama la diversità e vuole attorno a sé una comunità vivace ed eterogenea.
I “dodici apostoli” sono di provenienza diversa. Si sa che Filippo è di Betsaida (Gv 1,44), Pietro e Andrea hanno la casa a Cafarnao (Mc 1,29), Simone è di origine cananea (Mc 3,18), Bartolomeo, che la tradizione identifica con Natanaele, è di Cana di Galilea (Gv 21,2). Sotto il profilo sociale e professionale sono in maggioranza pescatori, si distingue Matteo che è invece esattore di tasse.
Alcuni seguivano già Giovanni Battista, quindi erano avviati, in qualche modo, ad una vita spirituale più intensa e più esigente; altri invece, come i pescatori sul lago di Tiberiade (Mc 1,16-20) o Matteo al banco delle imposte (Mt 9,7-9), immersi nella loro vita di gente comune e nel loro lavoro quotidiano, sono stati chiamati da Gesù all’improvviso, senza nessuna preparazione, né remota, né prossima.
Prima di diventare discepoli di Gesù molti di loro non si conoscevano, altri invece erano legati con vincoli di sangue o di amicizia. Andrea e Pietro, Giacomo e Giovanni, sono due coppie di fratelli; i pescatori sono compagni di lavoro; Filippo probabilmente è amico di Natanaele.
I dodici apostoli riflettono anche una diversità di ambiente di vita e di tendenze ideologiche. Accanto ai semplici pescatori di Galilea c’è Matteo, il pubblicano, Natanaele, un «vero israelita» (Gv 1,27), Simone, uno zelota.
Se dal loro profilo ci inoltriamo nel loro carattere e nella loro personalità, la diversità che emerge è ancora più grande. Nel gruppo attira molto l’attenzione Simone Pietro, uomo impulsivo, irruente, più portato ad agire che a riflettere («Signore, se sei tu, comandami di venire verso di te nelle acque», ma poi s’impaurì: Mt 14,28-32), più pronto a promettere che a mantenere la promessa («Signore, con te sono pronto ad andare in prigione e alla morte» Lc 22,33; «Darò la mia vita per te!» Gv 13,37). È un tipo che va facilmente agli estremi («Tu non mi laverai i piedi in eterno!»; «Signore, non solo i miei piedi, ma anche le mani e il capo!» Gv 13,8-9), che cade facilmente, ma che si rialza con prontezza non appena riconosciuto l’errore. È impaziente, fa tante domande di scatto, vuol avere chiaro tutto e subito, fa fatica ad aspettare e a sostare nel mistero perché è un uomo concreto: ha bisogno di soluzioni, e ha sempre tante domande («Signore, se mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli?» Mt 18,21; «Noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito; che cosa dunque ne avremo?» Mt 19,27; «Signore, dove vai? … perché non posso seguirti ora?» Gv 13,36-37). Egli segue Gesù con tutto l’ardore del suo carattere e con tutto il suo amore («Signore, tu sai che io ti amo» Gv 21,16-17) e Gesù gli affida il compito di guidare la Chiesa nascente.
Giovanni, invece, esprime il suo amore ardente per Gesù in modo molto diverso. Di temperamento forte pure lui (Giovanni e il fratello Giacomo vengono chiamati «Boanèrghes, figli del tuono» Mc 3,17), è dotato di grande capacità di riflessione e d’intuizione, insieme ad una forte sensibilità per il mistero. È il teologo e il mistico del gruppo.
Andrea si fa conoscere come un uomo socievole, generoso, zelante, premuroso nel portare gli altri a Gesù. Quando scopre qualcosa di buono e di bello, s’affretta a condividerlo subito con gli altri. È lui a condurre il fratello Pietro da Gesù con un annuncio gioioso: «Abbiamo trovato il Messia» (Gv 1,41). Quando un gruppo di greci volevano vedere Gesù, è lui, insieme a Filippo, a facilitare l’incontro (cf Gv 12,20-22). È ancora lui a scoprire e a portare da Gesù il ragazzo con cinque pani e due pesci, contribuendo così al grande miracolo (cf Gv 6,8-9).
Somigliante ad Andrea da questo punto di vista è Filippo, il mediatore fra Natanaele e Gesù nel loro primo incontro («Vieni e vedi» Gv 1,46). Filippo è un uomo semplice, schietto; fa fatica ad andare oltre il visibile, a penetrare il senso più profondo della realtà («Duecento denari di pane non sono sufficienti neppure perché ognuno possa riceverne un pezzo» Gv 6,5-6. «Filippo, da tanto tempo sono con voi e non mi hai conosciuto?» Gv 14 8-9).
Come Filippo, e più di lui, anche Tommaso è lento a cogliere il mistero nella sua profondità. Tommaso è un tipo razionale, non si compromette e non rischia facilmente, non si fida senza prove tangibili, non crede senza aver fatto esperienza personale («Signore, non sappiamo dove vai, come possiamo conoscere la via?» Gv 14,5. «Se non metto la mia mano nel suo costato, non crederò» (Gv 20.24-29).
Natanaele ha avuto il privilegio di ricevere un bell’elogio da Gesù fin dal primo incontro: «Ecco un vero Israelita in cui non c’è falsità». Questo l’ha fatto passare da uno scetticismo ironico – «Da Nazaret può mai venire qualcosa di buono?» – ad una domanda di stupore – «Come mi conosci?» – per giungere infine alla confessione di fede «Rabbì, tu sei il Figlio di Dio, tu sei il re d’Israele» (Gv 1,47-49).
Scorgiamo nel gruppo un silenzioso Giacomo, sempre presente negli avvenimenti importanti e sempre discreto: sarà lui il primo di loro a morire martire per la fede nel Maestro (At 12,1).
Matteo, il pubblicano, racconta la propria chiamata nel suo Vangelo (Mt 9,9-13). Gesù lo vede «seduto sul banco delle imposte» e gli dice: «seguimi». La sua risposta è immediata: si alza e lo segue, pronto ad iniziare una nuova vita. Gesù poi entra in casa sua e si fa commensale con lui e con altri suoi colleghi, all’obiezione dei farisei Gesù risponde dichiarando la sua missione di portando il perdono e la misericordia divina ai peccatori.
E nella lista sono citati anche un Giacomo di Alfeo, un Giuda di Giacomo, un Simone Zelota, di cui non conosciamo nulla al di là del nome. Infine c’è Giuda Iscariota, di carattere debole, uomo della “notte”, impenetrabile dall’amore (Gv 13,30), alla fine compie un gesto assurdo, umanamente incomprensibile: tradisce Gesù.
Insomma, i discepoli non sono persone ideali, perfette, non rappresentano modelli indiscutibili, ma sono uomini comuni, diversi di carattere, con virtù e difetti “comuni a tutti i mortali”. Litigavano qualche volta per delle banalità. C’era persino un po’ di concorrenza tra di loro. Al contrario di quello che insegnava loro Gesù, ambivano di essere il primo, il più grande del gruppo. Una cosa, tuttavia, è certa: tutti sono stati attirati dallo stesso Gesù, il quale, in tempi diversi e in circostanze diverse, ha rivolto a ciascuno di essi lo stesso invito: “Vieni e seguimi!”. Questo è ciò che li univa. Per questi uomini così diversi tra loro Gesù ha pronunciato, al termine della sua vita, la preghiera rivolta al Padre: «Siano perfetti nell’unità» (Gv 17,23). È a loro che Gesù ha affidato tutto sé stesso, le sue parole, i suoi fatti, la sua missione e, in un certo senso, il suo futuro: «Andate e fate discepoli tutti i popoli» (Mt 28,19); con la forza dello Spirito «di me sarete testimoni … fino ai confini della terra» (At 1,8).
Egli si è fidato del gruppo dei discepoli, si fida di noi, uomini e donne semplici, e sa che fin quando rimaniamo fedeli a lui, centro di unità, le diversità contribuiscono a rendere più belle, più ricche e più dinamiche le nostre comunità, e più efficace la nostra attività missionaria.
(Gift from Orbis Books to Sedos Library)