Perché non dialoghiamo? Dialogo nella Chiesa e nella Missione

  1. Introduzione

Buon pomeriggio a tutti. Riprendiamo i nostri lavori all’interno di questa giornata seminariale, organizzata in modalità congiunta dal SEDOS, che ha curato la parte della mattinata, e il IACM (International Association of Catholic Missiologists), che invece si è presa carico del programma pomeridiano. Da parte dell’IACM, in particolare del presidente Gianni Criveller, desidero esprimere la mia gratitudine a Fr. John Paul, segretario del SEDOS, e a tutti coloro che hanno reso possibile questa collaborazione. Penso che sia un primo tentativo nel cammino della sinodalità fattiva e delle sinergie molto auspicate da papa Francesco soprattutto all’interno della Chiesa.

Mi è stato chiesto di moderare questa sessione pomeridiana, ma anche di presentare a mo’ di introduzione delle riflessioni sul tema, che nelle prossime due ore ci terrà impegnati e che recita: Dalla sinodalità alla missione: la via della Chiesa per il mondo di oggi. Visto che da circa trent’anni mi occupo di dialogo – in particolare di dialogo interreligioso – ho pensato di offrire alcune riflessioni sul ruolo proprio del ‘dialogo’, all’interno della Chiesa e della missione. Si tratta di un tema molto vasto, come ben sapete. Inoltre, è da decenni al centro di riflessioni, anche di confronti e non di rado di scontri. Infatti, ancora oggi non si è arrivati ad una modalità soddisfacente e esaustiva del rapporto fra missione e dialogo, due aspetti che continuano a essere in tensione fra di loro – e probabilmente lo rimarranno anche in futuro – nonostante da più parti si tenti una mediazione, che probabilmente non è possibile in modo definitivo. Infatti, fin dalla questione che portò allo svolgimento del primo Concilio della storia – quello di Gerusalemme – il rapporto fra i cristiani e coloro che credono diversamente è stato uno dei nodi più complessi da affrontare e armonizzare all’interno dell’esperienza dell’annuncio cristiano nel corso dei secoli. E continua ad esserlo anche oggi, sia pure con modalità e nodi diversi.

  1. Un viaggio paradigmatico: Indonesia, Papua, Timor Leste e Singapore

Ci sarebbero diverse modalità per affrontare questo argomento. Oggi tenterei di farlo, proponendo alcune considerazioni sul recente viaggio di papa Francesco in Asia e Oceania. Esso, mi pare, abbia toccato punti, che hanno messo in evidenza ora il dialogo ora la missione, offrendo, tuttavia, un quadro unitario di approccio e di esperienza. È evidente che l’Indonesia – il Paese musulmano più grande al mondo – con la presenza di diverse religioni – induismo, buddhismo, cristianesimo e religioni tradizionali – ha offerto una piattaforma ideale per affrontare la questione del dialogo, ma non solo. Così pure Singapore dove la presenza

confuciana e taoista è molto forte e dove da tempo, a prescindere dalla Chiesa cattolica e, anzi, molto prima del suo impegno, il dialogo è presente a livello di leaders e fra questi e il governo. Le altre due tappe del viaggio di Francesco – a Papua e a Timor Leste – sono state invece caratterizzate da una dimensione tipicamente di ‘annuncio’ sia pure in contesti profondamente diversi. In Papua Nuova Guinea, la presenza cristiana – e cattolica in particolare – vive una fase ancora di primo annuncio in un ambiente che si potrebbe definire – e non solo per la posizione geografica rispetto a Roma – ‘alla fine del mondò. Timor Leste, invece, insieme alle Filippine, rappresenta una eccezione per il continente asiatico. È, infatti, una nazione cristiana cattolica quasi nella sua totalità – ci sono anche indù, buddisti e musulmani ma in ragione trascurabile.

In questo intervento introduttivo vorrei offrire solo alcuni punti di riflessione per aprire eventuali piste di ricerca.

  • «La fede si trasmette a casa in dialetto»

Nonostante quanto appena detto, sulla netta differenza dei contesti del viaggio, Papa Francesco non ha mai separato il discorso del dialogo da quello dell’annuncio. Già a Giacarta, in pieno contesto di dialogo con l’Islam, Bergoglio ha colto la prima occasione che gli si è presentata per sottolineare come deve avvenire l’annuncio, declinando tre elementi che sono parte della sua visione della missione: la famiglia (casa), i catechisti e il dialetto (lingua) di trasmissione. È indubbio che, anche grazie alla sua esperienza personale con nonna Rosa, il Magistero di papa Francesco riguardo all’annuncio ha da subito messo in evidenza il ruolo delle nonne, delle mamme e dei catechisti. Di fronte ad una di queste che aveva appena raccontato la sua esperienza di annuncio nel contesto di un Paese musulmano, papa Francesco ha tenuto a sottolineare che «la fede si trasmette a casa […] si trasmette in dialetto. E le catechiste, insieme alle mamme e alle nonne, portano avanti questa fede».[1] Indubbiamente, l’attuale papa, forse come mai prima, sottolinea nella dimensione dell’annuncio il ruolo dei componenti della famiglia di origine e, soprattutto, nei Paesi cosiddetti di ‘missione’ quello dei catechisti. Ci ha tenuto a sottolinearlo, come aveva fatto molte altre volte.

La Chiesa la portano avanti i catechisti. I catechisti sono coloro che vanno avanti, che vanno avanti. Poi vengono le suore – subito dopo i catechisti -; poi vengono i preti, il vescovo […] Ma i catechisti sono “al fronte”, sono la forza della Chiesa.[2]

Mi pare importante sottolineare questi aspetti. Raramente – oserei dire mai – infatti, in passato, il ruolo della madre e della nonna e della loro comunicazione in dialetto era stato sottolineato come nell’attuale magistero che vede una linea di continuità con quanto fanno i catechisti. Questi, infatti, quasi sempre presenti nella stessa parrocchia o villaggio, rappresentano un proseguimento e approfondimento rispetto alla realtà evangelizzatrice della famiglia.  Inevitabilmente, lo fanno con la stessa lingua/dialetto come mezzo di comunicazione. In questo contesto, un ruolo fondamentale è quello anche delle suore/consacrate. Spesso sono esse stesse le catechiste che continuano il lavoro iniziato da mamma e nonna. Apprezziamo, allora, all’interno di questo processo figure femminili, come le vere protagoniste dell’annuncio, soprattutto quando questo avviene ancora in età prescolare o dei primi anni scolari.

  • Fraternità e compassione

Altri due aspetti che sono emersi come caratterizzanti l’annuncio e che, allo stesso tempo, ci portano alla dimensione del dialogo, all’interno del contesto missionario, sono la ‘fraternità e la ‘compassione’. Papa Francesco ne ha parlato proprio in Indonesia dove questo era il titolo che i vescovi avevano dato alla tappa del grande arcipelago: Fede, fraternità e compassione. Questi ultimi sono atteggiamenti caratterizzanti, in modo decisivo, l’annuncio e, quindi, la missione in quanto tale.

Spesso, la ‘fraternità’ è stata raccomandata come dimensione ad intra della comunità cristiana che annuncia. Essa, infatti, vissuta all’interno della comunità è un potente vettore per l’annuncio, come risulta dagli Atti degli apostoli e dal modello delle prime comunità cristiane. Tuttavia, il modo in cui Bergoglio ne parla in questa occasione, appare orientato maggiormente ad extra. La ‘fraternità’ viene, infatti, declinata dal papa come l’atteggiamento di «apertura con cui [la Chiesa locale] si relaziona alle varie realtà che la compongono e la circondano, a livello culturale, etnico, sociale e religioso, valorizzando l’apporto di tutti e donando generosamente il suo in ogni contesto».[3] E’, quindi, attraverso la ‘fraternità’ vissuta ad intra, che si può costruire una comunità evangelizzatrice, perché capace di testimoniare e rendere visibile il Vangelo che si vuole annunciare. Tuttavia, è attraverso la ‘fraternità’ vissuta ad extra che si può annunciare con rispetto per le culture e le tradizioni, evitando di imporre l’esperienza e la verità cristiana, ma, piuttosto, proponendola nelle modalità che possa essere ascoltata, accolta e, eventualmente, accettata secondo la lingua, l’immaginario e il patrimonio culturale locale.

Strettamente e profondamente legata alla fraternità è la ‘compassione’, la seconda categoria sulla quale papa Francesco ha insistito a Giacarta, affermando che si tratta di qualcosa di molto legato alla ‘fraternità’. Compatire significa, infatti, sentire quanto l’altro sente e ciò significa, in ultima analisi, essere suo fratello o sua sorella. L’essere fratelli/sorelle, in questo senso, ci apre agli altri – non solo all’interno della Chiesa ma anche con coloro che appartengono ad altre Chiese e comunità ecclesiali, altre tradizioni religiose o che non hanno un riferimento di fede alcuna -, rendondoci capaci di riconoscersi «diversi come due gocce d’acqua». In effetti non ci sono gocce d’acqua che sono uguali. La fraternità e la compassione ci guidano, dunque, sulla strada di accoglierci a vicenda, riconoscendoci uguali nella nostra diversità.[4] In questo contesto, l’annuncio può e deve continuare, ma ciò che cambia è l’atteggiamento che si allontana dalla pretesa dell’imposizione, foriera di ‘proselitismo’ e, piuttosto, si realizza con un senso fraterno e compassionevole, valorizzando quanto ogni popolo e etnia comunità porta con sé come ricchezza. In sintesi, riprendendo Paolo VI, ma anche Giovanni Paolo II, papa Francesco sottolinea come «annunciare il vangelo non voglia dire imporre o contrapporre la propria fede a quella degli altri, non vuol dire fare proselitismo, vuol dire condividere la gioia dell’incontro con Cristo sempre con grande rispetto e affetto fraterno».[5] Proprio questo è un annuncio che si fa dialogo e a questo proposito mi viene in mente la frase di un amico rabbino, da decenni impegnato nell’esperienza del dialogo che, in occasione di uno scambio ebraico-cristiano, mi diceva che il dialogo è esattamente ‘dare all’altro la possibilità di essere altro’.

  1. La via del dialogo è aperta a tutti

Parlando della fraternità, dunque, appare spontaneo collegarsi al dialogo. La fraternità, infatti, è la dimensione che favorisce la possibilità dell’incontro. Essa parte dalla premessa, vera fondazione antropologica, che tutti gli uomini e le donne hanno un unico Padre, Dio, e, come conseguenza, sono fratelli e sorelle. Questa prospettiva è una sorta di fil rouge che lega l’esperienza e l’insegnamento dialogico di papa Francesco. E il recente viaggio lo ha confermato. Due sono le dimensioni che possiamo apprezzare in tale senso.

3.1 Il riconoscimento e apprezzamento di
iniziative altrui

Nel dialogo interreligioso, a parte il coraggio di saper prendere l’iniziativa per stabilire rapporti e legami di amicizia, è fondamentale anche il sapere riconoscere e apprezzare quanto gli altri fanno in tal senso. Infatti, sebbene la Chiesa cattolica sia riconosciuta universalmente come promotrice e fautrice di dialogo fra persone di diverse credenze religiose, non è stata la prima e unica istituzione a proporre un incontro di dialogo interreligioso. Basta pensare al ruolo avuto dal Parlamento Mondiale delle religioni, tenutosi a Chicago nel 1892. In questa prospettiva, un elemento fondamentale nella costruzione del dialogo – e papa Francesco ne è esempio eloquente – è l’apprezzamento degli sforzi compiuti dagli altri. La svolta conciliare e il documento Nostra Aetate sono spesso citati da attori e promotori del dialogo anche di altre religioni. Tuttavia, la Chiesa cattolica ancora oggi si trova ad essere invitata e coinvolta in iniziative prese da altri. Un esempio recente, sono i convegni interreligiosi voluti dal presidente del Kazakhstan già da un paio di decenni, a cui lo stesso papa Francesco ha voluto partecipare due anni fa. Il recente viaggio è stato significativo in tal senso. Papa Francesco ha benedetto il tunnel dell’amicizia che l’imam della moschea di Istiqlal, Nasaruddin Umar, fondatore del Masyarakat Dialog antar Umat Beragama, organizzazione di dialogo e già vice-ministro degli Affari Religiosi, e l’arcivescovo di Jakarta, il cardinale Ignatius Suharyo Hardjoatmodjo, hanno voluto costruire per unire i loro rispettivi luoghi di culto: la moschea appunto e la cattedrale cattolica di Santa Maria dell’Assunzione. Papa Francesco ha voluto attraversare il tunnel ed ha rivolto un saluto e un ringraziamento per questo elemento significativo che unisce – non solo architettonicamente – una cattedrale e una moschea.

Noi credenti, che apparteniamo a diverse tradizioni religiose, abbiamo un ruolo da svolgere: aiutare tutti ad attraversare il tunnel con lo sguardo rivolto verso la luce. Così, al termine del percorso, si può riconoscere, in chi ha camminato accanto a noi, un fratello, una sorella, con cui condividere la vita e sostenersi reciprocamente.[6]

Un secondo momento, che aiuta a comprendere l’apprezzamento degli sforzi di altri sul cammino del dialogo è stato quello della conversazione con i giovani di diverse religioni a Singapore. In quell’angolo dell’Asia, infatti, il dialogo è stato proposto ed è nato ben prima del Concilio Vaticano II, lontano dalla Roma cattolica e grazie a una idea suggerita da uno sheik musulmano e allo sforzo di realizzazione del progetto da parte di leaders di diverse fedi. Vale la pena ripercorrere il cammino compiuto dalla fine degli anni Quaranta da parte del Singapore Interreligious Organization, di cui fa parte uno dei giovani coinvolti nel dialogo con il papa.

Il 15 gennaio del 1949, ancora in piena era coloniale, Syed Ibrahim bin Omar Alsagoff, noto esponente della comunità musulmana del luogo, invitò varie personalità del mondo religioso della Singapore di quel tempo per celebrare la presenza in città di Maulana Mohamed Abdul Aleem Siddiqui, un grande leader religioso e maestro spirituale nato in India. Si trattava di una nota personalità che viaggiò per il mondo per una quarantina d’anni per diffondere le sue idee sulla religione musulmana. Fu proprio lui a suggerire ai presenti, una trentina, di studiare come realizzare quella collaborazione ed unità di intenti che i vari leaders avevano espresso nel corso della serata. Nemmeno un mese più tardi, venne convocato un secondo incontro che avrebbe segnato un passo storico. Il 4 febbraio, infatti, i vari leaders religiosi si ritrovarono una terza volta presso la residenza di Syed Ibrahim bin Omar Alsagoff, alla presenza dell’Alto Commissario britannico, massima autorità coloniale, per dar vita alla Interreligious Organisation of Singapore. La sua finalità era quella di favorire “una vera amicizia fra i leaders delle varie religioni in modo da poter lavorare insieme per il beneficio della pace e la felicità dell’umanità”. L’IOS non ha mai cessato di esistere La presidenza cambia ogni anno garantendo che via via ciascuna religione sia rappresentata a turno. Questo ha favorito nella metropoli di Singapore una maturazione al dialogo fra le varie comunità culturali, religiose ed etniche. È quello che emerso dal dialogo fra i giovani e Bergoglio, che al termine ha avuto parole significative: «Vi ringrazio di queste domande e sono contento di incontrare i giovani, incontrare questi coraggiosi, quasi ‘sfacciati’, sono bravi!»[7].

Si tratta di due esempi significativi in cui, come in altre occasioni, papa Francesco ha mostrato alla Chiesa cattolica la necessità di un impegno a cogliere la creatività e la positività dialogica degli altri, accogliendo il loro invito a impegnarsi insieme e continuare il cammino comune. Allo stesso tempo ha mostrato apprezzamento per le loro iniziative e il cammino fatto. Significativo a questo proposito quanto ha affermato con gratitudine ancora a Jakarta: «Grazie a tutti coloro che operano convinti che si possa vivere in armonia e in pace, consapevoli della necessità di un mondo più fraterno»[8].

[1] Papa Francesco, Discorso del Santa Padre, Incontro con i vescovi, i sacerdoti, i diaconi, i consacrati, le consacrate, i seminaristi e i catechisti, Jakarta (Indonesia), 4 settembre 2024.

[2] Idem.

[3] Papa Francesco, Discorso del Santa Padre, Incontro con i vescovi, i sacerdoti, i diaconi, i consacrati, le consacrate, i seminaristi e i catechisti, Jakarta (Indonesia), 4 settembre 2024.

[4] Idem.

[5] Idem.

[6] Papa Francesco, Discorso nel Tunnel dell’Amicizia, Jakarta, 5 settembre 2024.

[7] Papa Francesco, Dialogo con i giovani sul dialogo interreligioso, Singapore, 13 settembre 2024.

[8] Papa Francesco, Saluto nel Tunnel dell’Amicizia, Jakarta (Indonesia), 5 settembre 2024.

3.2 La centralità del linguaggio del corpo e
dei simboli

Chi da tempo è impegnato nel dialogo interreligioso conosce l’importanza dei simboli e del linguaggio del corpo. Entrambi possono essere grandi facilitatori del dialogo. Papa Francesco fa un uso attento ed opportuno di entrambi. Ricordiamo il camminare mano nella mano con l’imam di al-Azhar, al-Tayyeb, avviandosi alla grande sala di Abu Dhabi e abbracci scambiati in diverse parti del mondo con altri leader religiosi. Quello di Abu Dhabi è stato un segno importante a corredo e conferma di quanto sarebbe avvenuto pochi minuti dopo. Nei giorni trascorsi a Jakarta non sono stati pochi questi segnali. Quello che, senza dubbio, è rimasto nell’immaginario comune è stata la vicinanza dell’imam al papa. Divisi non solo dal punto di vista religioso ma anche dall’età, il gesto di rispetto dell’imam – che ha baciato il papa sulla testa – non poteva passare inosservato. Questi segni sono molto più efficaci che affermazioni, firme, documenti. Si tratta di dialogo in atto con immagini che restano nella mente delle persone.

Parlando di simbolo, poi, il ‘tunnel dell’amicizia’ rappresenta una immagine di vicinanza e di impegno a costruire ponti che parla da sé e manda un messaggio chiaro. Significativo che papa Francesco abbia voluto attraversarlo. Anche questo parla di apprezzamento, da una parte, e di adesione a una proposta di amicizia, dall’altra.

Un terzo elemento significativo mi è parso il dialogo con i giovani – appartenenti a diverse tradizioni religiose – di Singapore. Innanzi tutto, il già menzionato apprezzamento sintetizzato dalle sue parole finali. In secondo luogo, non deve sfuggire la disposizione in cui papa e giovani hanno dialogato. A semicerchio e, soprattutto, sullo stesso piano. Non si tratta di una novità. Fin da Assisi 1986, papa Giovanni Paolo II ha insegnato a mettersi sullo stesso piano, cosa, tuttavia, non sempre osservata da Benedetto XVI e anche papa Francesco, anche se quest’ultimo è apparso mai elevato rispetto a persone di altre religioni e anche di altre Chiese. Tuttavia, in Asia un anziano – o comunque una persona venerabile per età ed autorità morale – parla sempre da un livello superiore. Non è strano. I monaci buddhisti sono sempre sopraelevati rispetto agli altri – soprattutto se laici. Il fatto che il papa fosse, non solo non al centro, ma allo stesso livello dei giovani di diverse fedi è, quindi, molto significativo e aiuta alla credibilità del dialogo.

  1. Fondamenti e contenuti per un dialogo costruttivo

A livello di contenuti, il viaggio in Oriente, per quanto riguarda il dialogo ci evidenzia tre punti, che possiamo scorrere brevemente, ma che restano molto significativi.

  • Una antropologia aperta alla fraternità

L’aspetto fondante sta in una delle affermazioni che lo stesso Bergoglio, provocando osservazioni e preoccupazioni, ha rivolto ai giovani a Singapore. «Dio è Dio per tutti. E poiché Dio è Dio per tutti, noi siamo tutti figli di Dio».[1] Qui sta il fondamento di quella che Papa Francesco, durante il viaggio in Oriente, ha più volte definito la «‘mistica’ del vivere insieme, di mescolarci, di incontrarci […] di partecipare a questa marea un po’ caotica che può trasformarsi in una vera esperienza di fraternità, in una carovana solidale, in un santo pellegrinaggio» (EG 87).

4.2  Coscienza dell’unicità di Dio

Altro punto assai importante, è quello dell’unicità di Dio, che, forse mai, come in questa occasione, papa Francesco ha tenuto a chiarire. «C’è un solo Dio e noi, le nostre religioni sono lingue, cammini per arrivare a Dio. Qualcuno sikh, qualcuno musulmano, qualcuno indù, qualcuno cristiano, ma sono diversi cammini.»[2] Ovviamente, questa affermazione che, forse, non era mai stata così perentoria era destinata a creare tensioni e qualche levata di scudi. Mai come in queste parole, papa Francesco offre il fianco all’accusa di sincretismo e di messa di ogni credo sullo stesso piano. L’obiezione è chiara: dove va a finire l’unicità di Cristo e la verità del cristianesimo?

4.3  Necessità della coscienza di un ‘pensiero
incompleto

Mi sembra importante, spostare l’attenzione non tanto sul contenuto teologico, quanto sulla modalità dell’annuncio. Bergoglio – mi pare – non intende mettere in dubbio l’unicità di Cristo e la natura intrinseca del cristianesimo, come fede di coloro che lo seguono. La sua sensibilità è rivolta, piuttosto, a un annuncio rispettoso che, coerente con l’esistenza di un unico Dio – che, per noi cristiani si è pienamente rivelato nel Figlio Gesù -, non intende vanificare altre tradizioni. Il punto, per noi cristiani, è, piuttosto, se abbiamo davvero la coscienza di quanto abbiamo colto dell’unicità di Cristo e del suo essere ‘via, verità e vita’. Che Lui lo sia non ci sono dubbi e nemmeno papa Francesco ne nutre al riguardo. Il punto è, invece se possiamo affermare di aver compreso quella unicità nella sua interezza e pienezza. E su questo non possiamo non ammettere la necessità della piena coscienza che, come spesso ripete il gesuita Bergoglio, il nostro è un pensiero incompleto. Nessuno di noi ha piena coscienza dell’unicità di Cristo e, come tale, non possiamo imporlo, ma proporlo a coloro che non lo conoscono o che hanno avuto accesso a Dio attraverso altre vie. Questo ci aiuta a camminare sulla via del dialogo e, anche, a scoprire o riscoprire Dio con la ricchezza e profondità di altre tradizioni.

  1. Conclusione

Come sappiamo, papa Francesco, seguendo l’ispirazione di Benedetto XVI, spesso ripete che ‘nessuno può affermare di possedere la verità. Benedetto XVI è arrivato ad affermare la necessità di «imparare di nuovo questo “non-avere-la-verità

Nessuno può dire: ho la verità […] e, giustamente, nessuno può avere la verità. È la verità che ci possiede, è qualcosa di vivente! Noi non siamo suoi possessori, bensì siamo afferrati da lei. Solo se ci lasciamo guidare e muovere da lei, rimaniamo in lei, solo se siamo, con lei e in lei, pellegrini della verità, allora è in noi e per noi.[3]

E a conferma di questo vorrei concludere con una bella e significativa immagine tratta da una usanza delle prime comunità cristiane, di cui parla il religioso italiano padre Ernesto Balducci, uno dei profeti del secolo scorso.

[…] nelle comunità cristiane delle origini c’era l’uso di consegnare al fratello che stava per intraprendere un lungo viaggio il frammento di un vaso di terracotta frantumato. Al ritorno, sarebbe stato riconosciuto dal frammento ricomposto in unità con tutti gli altri. […] il nostro dovere è quello di restare fedeli a [lla identità] che abbiamo costruito, con una variante però, che essa va ritenuta non come il tutto ma come un frammento del tutto.[4]

Il dialogo è, dunque, parte integrante della missione della Chiesa, ma richiede il nostro riconoscere di non essere gli unici possessori della Verità. Come dice padre Balducci, questo non significa rinnegare la nostra identità e nemmeno la Verità. Piuttosto, ci aiuta a ripudiare quelle forme e tensioni che ci spingono a fare del nostro frammento la misura del tutto.[5]

[1] Papa Francesco, Dialogo con i giovani sul dialogo interreligioso, Singapore, 13 settembre 2024.

[2] Idem.

[3] Benedetto XVI, Omelia alla messa con gli ex-allievi, Castel Gandolfo (Roma), 02.09.2012

[4] E. Balducci, L’uomo planetario, Gabrielli Editore, Verona, 2024, 234.

[5] Idem.