PARTE I: Collaboratori alla missione.
1a domanda: quale missione?
Risposta: Missio Dei
2a domanda: a quale livello di collaborazione?
Risposta: A pieno livello dalla vocazione battesimale
PARTE II: Impegno nella Chiesa locale
3a domanda: Come incoraggiare questa partecipazione nelle Chiese locali?
Risposta: Investire nella formazione dei laici; Rivedere la formazione del clero; Fare esperienze concrete di rete – camminare insieme, in sinodalità.
1 Collaboratori in quale missione?
Forse quando pensiamo al tema dei laici come collaboratori nella missione, quasi naturalmente viene in mente che essi collaborano alla “nostra” missione, alle “nostre” opere. Quindi siamo felici di vedere che, di fatto, molti di loro occupano oggi posizioni e funzioni importanti nelle nostre scuole, università, ospedali, centri sociali, case di ritiro, parrocchie, ecc. E, sebbene questo possa essere considerato un avanzamento nei rapporti tra i diversi “stati di vita” all’interno della Chiesa (laico, religioso, ministro ordinato), in realtà riflette ancora una mentalità piramidale, che pone i non ordinati e i non consacrati alla base della piramide che prende le decisioni e determina la direzione della missione, che rimane primariamente “nostra”, lasciando a noi di dirigerli ea loro di collaborare.
Penso che il passaggio da questo paradigma a quello di una Chiesa più circolare (e non piramidale) inizi quando ci rendiamo conto che, in nessun modo, la missione che svolgiamo può essere etichettata come “nostra”, poiché è il Signore che ci sceglie e ci invia a collaborare alla sua missione, cioè è la Missio Dei! Come sappiamo, questo antico termine latino significa “Missione di Dio” o “Invio di Dio”, in allusione alla grande missione di Dio di restituire a Sé l’umanità attraverso l’incarnazione e l’invio di Suo Figlio Gesù e la Sua chiamata a noi, per partecipare alla sua missione.
Infatti, questo linguaggio ci ha aiutato, nell’ambito della vita religiosa, a superare le distanze ea creare una maggiore consapevolezza di corpo e di rete apostolica, che comprende tutti coloro che sono coinvolti nella stessa missione. Così, nell’ultima Congregazione Generale dei Gesuiti, ad esempio, il documento finale invita “i Superiori e Direttori dell’opera, così come tutti i Gesuiti e collaboratori nella missione, a promuovere profonde abitudini di preghiera e di discernimento come preludio e accompagnamento alla pianificazione continua, ma anche per rafforzare i reciproci rapporti e la collaborazione nell’attuazione dei piani. Significa coltivare uno spirito di apertura e di fiducia tra di noi e con tutti coloro che servono la Missio Dei” (CG d.2,26). Si vede che non si parla più di collaboratori per la “nostra missione”, poiché oggi comprendiamo più chiaramente che si tratta di “collaborazione con gli altri”, in una “partecipazione alla missione che comprende quanti professano la fede cristiana come noi, gli appartenenti a religioni diverse, le donne e gli uomini di buona volontà che, come noi, desiderano collaborare all’opera riconciliatrice di Cristo. Nelle parole del Padre Generale Arturo Sosa, i gesuiti sono chiamati ‘alla missione di Cristo, che non appartiene esclusivamente a noi, ma che condividiamo conmolti uomini e donne consacrati al servizio degli altri’” (CG36 d.1, 36).
Naturalmente, tutto ciò richiede tempo e desiderio di conversione perché diventi realtà, perché, come riconoscono i gesuiti, “nonostante i notevoli progressi nella collaborazione all’interno della Compagnia, gli ostacoli continuano a esistere. Le sfide risiedono nella nostra mancanza di immaginazione e coraggio; oppure possono provenire da inibizioni derivanti dai nostri contesti sociali o anche da pratiche abituali localizzate di clericalismo” (CG36 d.2,7).
2 A quale livello di collaborazione?
Oltre ai consacrati e/o ministri ordinati, anche i laici e le laiche partecipano pienamente come collaboratori alla missione di Cristo, attraverso il sacramento del Battesimo, che rende tutti noi discepoli e missionari, come ha ricordato Papa Benedetto XVI ad Aparecida, nel suo discorso inaugurale di quella V Conferenza dell’Episcopato Latinoamericano, quando disse che uno degli obiettivi di quell’incontro era “ricordare anche ai fedeli di questo Continente che, in forza del loro Battesimo, sono chiamati essere discepoli e missionari di Gesù Cristo” [1].
Ma, ancor prima di quel momento e con portata universale, il Concilio Vaticano II ha confermato la visione della Chiesa come Popolo di Dio, come vediamo nella Lumen gentium, che nei suoi primi tre capitoli tratta del mistero della Chiesa, della Chiesa come Popolo di Dio e della costituzione gerarchica della Chiesa e in particolare dell’episcopato, che si inserisce e si comprende nell’intero Popolo di Dio, evidenziando così il rapporto di complementarità tra il sacerdozio battesimale, comune a tutti, e il sacerdozio ministeriale, dei ministri ordinati. Ciò conferma che, sebbene solo pochi esercitino il servizio dell’autorità, tutti nella Chiesa esercitano pienamente il servizio della collaborazione alla missione di Cristo. Infatti, l’intero IV capitolo di questa costituzione conciliare è dedicato a descrivere il ruolo dei laici nella struttura ecclesiastica e la loro missione nella Chiesa, mettendo in luce la nostra comune identità di cristiani, data dal Battesimo.
Ora, questa piena partecipazione dei laici, e specialmente delle donne, alla missione di Cristo e della sua Chiesa, è ripresa oggi da papa Francesco, il quale si discosta dalla stessa visione del Vaticano II per insistere sul fatto che tale partecipazione nasce da un’esigenza di la nostra fede, come ha fatto nel suo discorso inaugurale per l’inizio del nuovo cammino sinodale, il 9 ottobre 2021:
Infatti – come dice l’apostolo Paolo – «da un solo Spirito siamo stati tutti battezzati in un solo corpo» (1 Cor 12,13). Il punto di partenza, nel corpo ecclesiale, è questo e non altro: il Battesimo. Da Lui, nostra fonte di vita, deriva l’uguale dignità dei figli di Dio, pur nella diversità dei ministeri e dei carismi. Per questo tutti siamo chiamati a partecipare alla vita della Chiesa e alla sua missione. Se manca una reale partecipazione dell’intero Popolo di Dio, i discorsi sulla comunione rischiano di diventare nient’altro che pie intenzioni. A questo proposito qualche passo in avanti è stato fatto, ma si avverte ancora una certa difficoltà e dobbiamo registrare il disagio e la tribolazione di tanti operatori pastorali, delle organizzazioni partecipanti delle diocesi e delle parrocchie, delle donne che spesso sono ancora lasciato fuori. Tutti a partecipare: è un impegno ecclesiale irrevocabile! Per tutti i battezzati questa è la carta d’identità: il Battesimo[2].
Fortunatamente, nonostante le resistenze di alcuni settori interni della Chiesa gerarchica e di alcuni gruppi neoconservatori e anti-Vaticano II, l’impegno di Francesco per combattere il
clericalismo e dare più spazio alla partecipazione dei laici, con enfasi sulla partecipazione femminile, ha trovato un riscontro positivo eco e propositivo in varie parti del mondo, come la regione Pan amazzonica, dove attualmente si sta lavorando per mettere in pratica le proposte approvate al Sinodo Speciale sull’Amazzonia, che nel suo Documento finale afferma:
Il rinnovamento del Concilio Vaticano II colloca i laici all’interno del Popolo di Dio, in una Chiesa tutta ministeriale, che ha nel sacramento del Battesimo il fondamento dell’identità e della missione di ogni cristiano. I laici sono i fedeli che, mediante il Battesimo, sono stati incorporati a Cristo, costituiti nel Popolo di Dio e, a modo loro, resi partecipi del munus sacerdotale, profetico e regale di Cristo, esercitando così il loro ruolo nella missione di tutto il popolo cristiano nella Chiesa e nel mondo (cfr LG 31). Da questo triplice rapporto, con Cristo, con la Chiesa e con il mondo, nascono la vocazione e la missione dei laici. La Chiesa in Amazzonia, in vista di una società equa e solidale nella cura della “casa comune”, vuole fare dei laici attori privilegiati. La sua azione è stata ed è vitale, sia nel coordinamento delle comunità ecclesiali, nell’esercizio dei ministeri, sia nel suo impegno profetico per un mondo inclusivo di tutti, che ha nei suoi martiri una testimonianza che interpella[1].
3 Come favorire questa partecipazione nelle Chiese locali?
Dopo aver riflettuto sulla missione che svolgiamo come Missio Dei e che, al suo interno, la collaborazione dei laici e delle laiche deve essere piena e legittima, a partire dalla comune identità data dal Battesimo, possiamo concludere questa breve esposizione chiedendoci quale possiamo e dobbiamo fare di più per incoraggiare e rafforzare la partecipazione dei laici, non solo nell’esecuzione dei nostri progetti apostolici, ma anche nei processi di elaborazione degli stessi e negli ambiti decisionali.
Certamente, tutti conosciamo iniziative che vanno in quella direzione, a diversi livelli: dal più universale al più localizzato nelle nostre realtà geografiche, ecclesiali e congregazionali. La condivisione di alcune esperienze riservate a questo pomeriggio sarà un momento ricco per applicare il discorso teorico che abbiamo fatto finora.
Tuttavia, vorrei evidenziare alcune linee di azione pastorale che mi sembrano importanti per fomentare questa maggiore partecipazione dei nostri fratelli laici alla missione di Cristo, nella quale siamo tutti collaboratori. Per questo ricorro ancora una volta alla realtà che conosco più da vicino, cioè quella della Chiesa Pan amazzonica, per essere la mia regione di origine e per avervi lavorato per molti anni, essendo fino ad oggi collaboratore della missione che fanno laggiù. Accanto a questo, credo possa essere utile condividere anche la mia esperienza di collaborazione in questo momento con l’équipe di spiritualità del prossimo Sinodo sulla sinodalità, che certamente getta molta luce sul tema che stiamo affrontando.
Un primo aspetto da evidenziare è l’importanza di investire nella formazione dei nostri animatori laici, affinché possano esercitare pienamente la loro fondamentale vocazione di collaboratori nella missione di Cristo con noi, sacerdoti e religiosi, che abbiamo già assicurato un lungo percorso formativo. Lo stesso Papa Francesco, infatti, nell’esorta-zione apostolica “Querida Amazônia” sottolinea che è importante che i laici si assumano responsabilità importanti per la crescita delle comunità amazzoniche, molte delle quali mancano della presenza regolare della figura sacerdotale e anche della vita consacrata. Ma, sottolinea il Papa, perché i nostri laici possano agire nell’esercizio della leadership in queste comunità, è necessario un adeguato accompagnamento, cioè che sia offerta loro una solida formazione[2]. In questo senso Francesco riprende quanto già proposto dal Documento finale del sinodo amazzonico, quando raccomanda la creazione di programmi di formazione in teologia che siano inculturati e comprendano la formazione congiunta per i ministeri laicali e la formazione dei sacerdoti[3]. Non si tratta semplicemente di copiare e offrire ai laici gli stessi modelli di formazione nello stile clericale o di vita consacrata, ma in modo
creativo cercare di assicurare ai nostri responsabili laici, come dice il Papa, «la maturazione nella santità attraverso vari servizi laicali, che presuppongono un processo di maturazione – biblica, dottrinale, spirituale e pratica – e diversi percorsi di formazione permanente”, permettendo così alle comunità amazzoniche di avere una “presenza stabile di leader laici, maturi e dotati di autorità, che conoscono le lingue, le culture, l’esperienza spirituale e il modo di vivere in comunità in ogni luogo, lasciando spazio alla molteplicità dei doni che lo Spirito Santo semina in tutti” [1].
Sull’importanza della formazione dei collaboratori laici nella missione della Chiesa (Missio Dei), i vescovi latinoamericani riuniti ad Aparecida hanno riconosciuto “la testimonianza e la solidarietà di laici e laiche, sempre più interessati alla loro formazione teologica, come veri missionari della carità, e adoperarsi per trasformare efficacemente il mondo secondo Cristo” [2]. C’è da chiedersi però se, da allora fino ai nostri giorni, ci sia stato davvero un progresso nell’investimento di risorse per la formazione dei laici nelle nostre chiese locali e nelle nostre congregazioni religiose.
Nell’ambito della formazione non si può non menzionare, come di fondamentale importanza per costruire un maggior ruolo dei laici come collaboratori della missione di Cristo, l’attenzione che deve essere prestata alla formazione sacerdotale, affinché, fin dall’inizio, i giovani seminaristi ei futuri sacerdoti imparino a lavorare in collaborazione con le altre forze vive della Chiesa, come i laici e la vita consacrata. Ebbene, uno dei grandi ostacoli per noi per avere più iniziative per la partecipazione dei laici (e, in alcuni luoghi, anche dei consacrati) in prima linea nella pastorale parrocchiale o in altre è il clericalismo predominante, che, secondo Papa Francesco, è direttamente legato all’attaccamento al potere, essendo una vera e propria perversione che finisce per contagiare gli altri, perché «il clericalismo, che non è solo dei chierici, è un comportamento che riguarda tutti noi: il clericalismo è una perversione della Chiesa»[3]. Occorre quindi favorire, fin dalla formazione iniziale, esperienze concrete ai futuri sacerdoti di lavorare in rete, perché imparino a camminare insieme, in sinodalità.
Con la parola sinodalità arriviamo, poi, all’ultimo aspetto che vorrei evidenziare per favorire la collaborazione e il coinvolgimento dei laici nella missione che oggi tutti siamo chiamati a svolgere, non solo dentro ma soprattutto fuori le mura della Chiesa, come vera “Chiesa in uscita”. Il tema della sinodalità, infatti, è già stato presente nei recenti sinodi convocati dal Papa. Se vogliamo comprendere lo spirito di sinodalità che muove i passi della Chiesa oggi, dobbiamo tenere presente tutto il cammino percorso sin dalla realizzazione del Concilio Vaticano II, l’istituzione del Sinodo dei Vescovi da parte di Papa Paolo VI, fino ad arrivare ai recenti sinodi guidati dall’attuale Papa, poiché sempre più da un sinodo all’altro si vede che Francesco non ha dubbi che «il cammino della sinodalità è il cammino che Dio attende dalla Chiesa di il Terzo Millennio”, essendo una “dimensione costitutiva della Chiesa”, così che “ciò che il Signore ci chiede, in un certo senso, è già contenuto nella parola ‘sinodo’”[4].
Ad esempio, al Sinodo su “Le sfide pastorali della famiglia nel contesto dell’evangelizzazione”, nel 2014, Francesco si è reso conto che, metodologicamente, per dibattere un tema così importante e complesso, era necessario e urgente ascoltare, soprattutto alla voce dei laici, stabilendo così una lunga dinamica preparatoria, con due incontri presinodali ad ampia partecipazione, che andavano così maturando la riflessione e preparando il cammino culminato nell’assemblea. Parimenti, nel Sinodo su “I giovani, la fede e il discernimento vocazionale”, nel 2018, è possibile notare un ampliamento della modalità di ascolto, che ha determinato un maggiore spazio per una partecipazione individuale molto ampia a distanza, nella fase preparatoria dell’Assemblea, e anche in questa, vi è stata una rappresentanza più significativa diuditori, invitati ed esperti, favorendo così che il tema dei giovani fosse affrontato in modo più vivace durante l’assemblea sinodale.
Ma, senza dubbio, è stato nel Sinodo sull’Amazzonia, con il tema “L’Amazzonia: nuovi cammini per la Chiesa e per un’ecologia integrale”, che abbiamo trovato il saggio metodologico più importante in termini di progresso nella sinodalità, dove il due esperienze sinodali precedenti (Famiglia e Giovani) hanno trovato un punto di convergenza e dove hanno cominciato ad affermarsi con maggior forza alcuni cambiamenti strutturali, basati su un’ampia presenza del Popolo di Dio lungo tutto il processo sinodale, caratterizzato metodologicamente da un ascolto concreto e inclusivo, soprattutto di leader nativi, donne, ospiti di altre organizzazioni internazionali o di altre confessioni cristiane, ecc.
La sinodalità non è oggetto della nostra riflessione in questo momento, ma la sua importanza per la Chiesa indica la necessità di ampliare il ventaglio delle esperienze apostoliche che aiutino i cristiani a sapersi sempre più lavorare insieme, nella diversità dei carismi e dei ministeri, attraverso la costruzione del regno di Dio, valorizzando i momenti di ascolto, di dialogo e di discernimento comune, in un processo in cui tutti si sentono inclusi come battezzati e, in definitiva, come persone amate da Dio.